La prova di resistenza fra Biden e Netanyahu

MONDO. Nel calderone del Medio Oriente, in perenne ebollizione, una cosa è ormai chiara: al di là della guerra guerreggiata tra Hamas e Israele, la vera battaglia politica oggi si svolge tra Israele e gli Stati Uniti.

L’Iran, come si è visto, non ha voglia di andare oltre qualche eclatante gesto dimostrativo come l’annunciatissimo attacco con i droni del 14 aprile, cortesia peraltro reciprocata da Israele con la sua morbida risposta. I Paesi arabi del petrolio, soprattutto Arabia Saudita e Qatar, cercano di lucrare sulla allucinante situazione dei palestinesi di Gaza per spremere dagli Usa le migliori condizioni in vista dell’intesa globale con Israele che palesemente desiderano e che dall’epoca degli Accordi di Abramo (2020) già coinvolge gli Emirati Arabi Uniti. La Russia, affacciata sulla crisi attraverso la Siria e l’Iran, si accontenta del fatto che Israele non provi a destabilizzare il regime di Bashar al-Assad, lasciando in cambio passare i jet dello Stato ebraico che vanno a colpire le basi iraniane. La Cina osserva e, almeno per il momento, si gode le difficoltà americane. Poi si vedrà.

La partita tra Benjamin Netanyahu e Joe Biden si è ormai trasformata in una gara di resistenza. A ogni mossa dell’uno corrisponde la contromossa dell’altro. Biden ribadisce per la millesima volta la contrarietà degli Usa a un attacco contro Rafah e Netanyahu manda avanti le truppe. Il primo minaccia di sospendere le forniture delle bombe d’aereo e dei proiettili per l’artiglieria pesante se le truppe israeliane entreranno nel sovraffollato centro di Rafah e il secondo convoca il gabinetto di guerra per decidere di ampliare le attuali operazioni militari.

Chi cederà per primo? Netanyahu specula sull’anno elettorale americano, che costringe Biden a una serie di rischiose acrobazie dialettiche e politiche. Il presidente americano ha detto: «Noi non ci allontaniamo da Israele, ci allontaniamo dalla sua maniera di fare la guerra». Ma solo adesso, dopo sette mesi e mezzo di massacri, si è deciso a tirare (moderatamente) il freno, preso tra le proteste delle Università, che rischiano di fargli perdere il voto dei giovani, e le pressioni della influente comunità ebraica americana. Biden a sua volta sa che per Netanyahu la guerra, e la prospettiva di poter dire in qualche modo «ho vinto», è l’unica possibile via d’uscita per la strategia sanguinaria e inconcludente che ha scelto. Politicamente è un morto che cammina, e se dovesse perdere anche gli ostaggi ancora nelle prigioni di Hamas…

Sono due opposte debolezze, come dimostra anche il voto di ieri dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite che, con 143 sì, 9 no e 25 astensioni (fra queste l’Italia), ha riconosciuto il diritto della Palestina a diventare membro a pieno titolo dell’Onu, invitando il Consiglio di Sicurezza, il cui parere è vincolante, a dare il via libera. Pensate che risultato per Netanyahu, che ripete a macchinetta che mai e poi mai ci sarà uno Stato dei palestinesi. E che risultato anche per Biden: dice nelle sedi internazionali che ci vogliono due Stati per i due popoli ma poi, com’è successo il mese scorso, mette il veto in Consiglio di Sicurezza.

La verità è che Netanyahu, insieme con decine di migliaia di palestinesi, ha massacrato anche il rango internazionale di Israele, ora sorretto solo dalla timidezza di un’Europa impaurita da tutto e non più all’altezza della propria storia. E che Biden, volendo essere tutto insieme, pro Israele e anti Netanyahu, ha finito con essere poco o nulla. Facendo così alla fin fine il gioco di Donald Trump, che sta da una parte sola e capitalizza su quella.

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