Al Festival il virtuoso Volodos: «Suonare è una magia mai scontata»

MUSICA. Lunedì 6 maggio il Donizetti ospita il recital del pianista russo. In programma brani di Schubert, Schumann e Liszt. «La musica risuona dentro di me dalla mattina alla sera, è inconscia, ci convivo sempre».

Tra i pianisti che il festival ha «lanciato» nello Zenith internazionale un posto a parte se lo ritaglia Arcadi Volodos, pianista di Leningrado (1972) che dopo i furori virtuosistici iniziali - un autentica forza della natura - ha di nuovo spiazzato e strabiliato per le quintessenze della sua tavolozza timbrica, consolidando la sua posizione apicale nel pianismo internazionale. Lunedì 6 maggio (20.30) al Teatro Donizetti si cimenta con Schubert (Sonata D845), Schumann (Davidsbündlertänze op.6) e la Rapsodia ungherese n.13 di Liszt, versione Volodos. A seguire giovedì 9 maggio toccherà a un altro gigante russo, Grigory Sokolov, con brani di Bach, Chopin e Schumann.

Come è nato l’approccio di Volodos alla musica e, poi al pianoforte?

«La mia formazione musicale è iniziata alla prestigiosa Cappella di San Pietroburgo, molto selettiva all’epoca, in cui venivano ammessi ragazzi da tutta l’Unione Sovietica. Lì si sono formati principalmente i futuri direttori di coro. Era una formazione era eccellente, ma era bandita ogni spontaneità. Cantavamo musica religiosa, ma anche musica patriottica veramente terribile. Non c’era niente di spontaneo. Mia madre lavorava molto, e quindi io ho vissuto per alcuni anni in collegio con altri studenti: anni meravigliosi, segnati da cameratismo e amicizia. La musica e il pianoforte sono arrivati ​​molto tardi, ho avuto un’infanzia normale, grazie a Dio, e ora capisco quanto sia importante. Il mio amore per il pianoforte è nato dalle registrazioni, in particolare da quelle di Rachmaninoff che mi aveva regalato mio suocero, collezionista. Grazie anche alle trascrizioni, di Horowitz, Busoni, Rachmaninoff che ho ascoltato moltissimo e studiato a orecchio, sono arrivato al piano. Grazie anche i miei compagni di classe, con scambi che hanno nutrito le mie prospettive, con la natura... voglio dire che non impariamo la musica, conviviamo con essa».

È vero che soltanto verso i 15 anni cominciò a studiare seriamente il pianoforte?

«Sì, perché nella Cappella di San Pietroburgo le lezioni di pianoforte non erano la disciplina principale, c’era soltanto pianoforte complementare. Non ero un bambino prodigio, e nemmeno considerato particolarmente talentuoso… come mi è stato detto poi: “eri un ragazzo normale, niente di speciale, rispetto ad alcuni dei tuoi compagni di classe”. Sono stato molto fortunato con i miei insegnanti e ho avuto grandi esperienze da studente. I più grandi insegnanti hanno sempre saputo identificare il potenziale dei loro studenti, come la mia insegnante Galina Eguiazarova a Mosca, che anticipò il mio futuro di pianista, appena arrivato, con una tecnica scarsa, da pianista dilettante».

Esiste una «scuola russa» di pianoforte? Quali significati, quali valori porta con sè?

«Penso che il valore più grande trasmesso in passato nella scuola russa non siano tanto alcune caratteristiche del pianoforte russo - ci sono state tante personalità diverse provenienti dallo stesso conservatorio o dallo stesso insegnante, prendiamo Sofronitsky e Yudina, allieve di Nikolaev, due mondi pianistici e musicali separati - ma soprattutto l’atteggiamento sacro e sacrificale nei confronti dell’arte. Per questi personaggi valeva più una sonata di Schubert che tutta la loro vita, penso a Feinberg, Sofronitsky, Neuhaus, Richter. Non è rimasto più nulla di questa scuola ormai, è finita. L’arte per loro non era un affare o denaro, ma una religione, una questione sacra, e la vita per la musica un sacrificio…»

Che valore ha per lei esprimersi attraverso un recital di pianoforte solo?

«Il recital attualmente è la mia unica forma espressiva, perché da diversi anni non faccio più concerti con un’orchestra. Sono solo, tutto dipende da me, posso utilizzare una tavolozza sonora infinitamente più ricca, pianissimi che non possiamo permetterci con un’orchestra dove i suoni sono più voluminosi, più grossi. Nel recital ho più tempo anche per sviluppare un dialogo con il pubblico, di penetrare nell’opera del compositore e semplicemente di suonare diversi compositori nello stesso programma».

Quale è, a suo avviso, il rapporto che si crea tra l’interprete e il suo pubblico?

«Questa è vera magia, non è scontata. Ricordo un concerto di Sviatoslav Richter, vecchio e debolissimo, al Museo del Prado, un concerto per studenti: una Sonata di Prokofiev, Miroirs e Valses nobles et sentimentales di Ravel. Non riusciva a suonare forte. All’inizio ho pensato: “Mio Dio, come andrà a finire questo concerto?”. E poi ha letteralmente ipnotizzato la stanza. Ho avuto l’impressione che potessimo toccare fisicamente la musica. Non ho mai provato un sentimento simile con nessuno. Una registrazione non sarebbe riuscita a catturare questa magica esperienza, ne avremmo sentito solo i difetti».

Lei, oltre che interprete, è anche anche autore di arrangiamenti straordinari. Cosa può dirci di questo duplice ruolo dell’arte pianistica?

«Ciò che mi interessa più di tutto è il processo di trascrizione: come cambiare gli elementi, come variare un tema del genere e presentarlo in un modo diverso. Tutte le mie trascrizioni nascono da improvvisazioni spontanee. György Cziffra mi ha detto che le sue trascrizioni erano pura improvvisazione, concepita nel momento presente. Per questo non vedo il motivo di rifare più volte le trascrizioni o di pubblicarle. Sono sorpreso che altri pianisti preferiscano suonare le mie trascrizioni invece di immaginarne di proprie».

C’è spazio nella tua vita per altre passioni? Cosa fa quando non suona il piano?

«La musica risuona dentro di me dalla mattina alla sera, è inconscia, ci convivo sempre, che lo voglia o no. Ma ho bisogno di pause, per disconnettermi dal mondo esterno. Sono felice di trascorrere del tempo con la mia famiglia, mia figlia, il mio cane. Alcuni musicisti non possono passare un mese senza suonare in pubblico, senza viaggiare. È una questione di personalità. Durante la pandemia sono rimasto due anni a casa con mia moglie e mia figlia, ed ero l’uomo più felice del mondo!».

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