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Andrea Ripamonti e la musica «dietro l’obiettivo»

Intervista. Classe 1992, nativo di Spirano, il fotografo musicale Andrea Ripamonti ci ha raccontato la sua esperienza «davanti alle transenne», oltre a dare qualche consiglio a chi vorrebbe cominciare il suo stesso percorso professionale

Lettura 4 min.
Sting (Foto di Andrea Ripamonti per Rockon.it)

Parlare di fotografia nel mercato musicale può sembrare insolito. Per i fan della musica dal vivo, però, gli scatti provenienti da un concerto sono spesso una finestra da cui affacciarsi per approfondire il rapporto con le loro band preferite. Queste fotografie impreziosiscono recensioni o reportage; altre volte sono talmente importanti e caratteristiche da diventare vere e proprie opere d’arte inserite all’interno di collezioni pubbliche e private.

Per capire meglio il mondo della fotografia musicale, abbiamo discusso con Andrea Ripamonti, classe 1992 e nativo di Spirano, con oltre 450 concerti all’attivo come professionista tra Italia, Francia, Belgio e Ungheria.

GT: Come ti sei approcciato al mondo della fotografia?

AR: Il mondo della fotografia è sempre stato parte della mia vita, perché ci sono letteralmente nato in mezzo. I miei genitori sono fotografi e prima di loro lo erano i miei nonni, che circa settant’anni fa aprirono lo studio «Foto Riva» a Spirano. Non sono mai stato obbligato a portare avanti l’attività di famiglia, anzi, sono stato libero di fare quello che volevo. Mi sono avvicinato a questa professione quando avevo quindici anni, perché i miei genitori mi avevano chiesto se volessi aiutare in studio per avere qualche soldo come paghetta. Da lì ho approcciato la fotografia in maniera completamente autonoma, studiando da solo e spesso sbagliando, ma più sbagliavo, più esperienza facevo e più imparavo. Così ho cominciato ad aiutare durante matrimoni, cerimonie ed eventi, finché ad inizio 2019 ho avuto un contatto grazie a una mia ex collega che mi ha portato a entrare nel mondo della fotografia di spettacolo, quindi nello specifico musica, concerti dal vivo… e voilà, eccomi qua!

GT: Cosa significa essere un fotografo musicale?

AR: Prima di tutto è una cosa che scegli di fare, non è un circuito obbligato per un fotografo. Anzi, la fotografia musicale è un po’ particolare dal punto di vista economico. Significa avere tanta passione per la musica e continuare a studiare, perché a seconda del concerto alcune cose cambiano e possono essere previste solo con lo studio e la pratica. Significa viaggiare tanto facendo orari abbastanza difficili, da far collimare con anche altri impegni. Però tutto questo non è negativo, nel senso che se lo faccio ancora oggi è perché, per quanto mi riguarda, è un mondo che dà molte soddisfazioni.

GT: Come si svolge un «concerto tipo?»

AR: Ci possono essere molte variabili che possono modificare l’andamento di un concerto per un fotografo, prima tra tutte il committente delle fotografie. Se stai lavorando per un gruppo o per un promoter, le regole cambiano di volta in volta. Solitamente, però, quasi tutti i fotografi lavorano con accrediti stampa, nel mio caso tramite il portale Rockon con cui collaboro ormai da cinque anni. In questo caso, normalmente si è autorizzati a scattare solamente nei primi tre pezzi dello show per cui si ottiene l’accredito. La maggior parte delle volte si scatta nell’area che viene identificata come «pit», ovvero lo spazio tra il palco e la prima transenna, salvo altre indicazioni dovute alla location, a scelte del management o dell’artista stesso, che possono obbligare a scattare da una lunga distanza quale potrebbe essere il mixer, o da una media distanza come i lati di un teatro. Delle volte non è nemmeno detto che si scatti sempre durante i primi tre pezzi. Ho avuto esperienze di gruppi che facevano scattare solo durante il primo pezzo o, addirittura, solo durante i primi trenta secondi dei primi tre pezzi. Ammetto che, da questo punto di vista, le policy per le fotografie non smettono mai di stupirmi.

GT: C’è un concerto particolare della tua carriera che ti è rimasto in mente?

AR: Florence and the Machine a Budapest durante lo «Sziget Festival» del 2023. Detta così sembra la scoperta dell’acqua calda, perché è chiaro ormai da anni che Florence è un’artista che sicuramente lascerà il segno nella storia della musica. Dal vivo, però, mi ha particolarmente stupito per il suo saper coniugare una voce potentissima con il suo modo di muoversi sul palco che, complice anche la scelta dell’outfit composto sempre da questi vestiti leggeri, dà l’impressione di vedere una forza della natura all’opera. È in grado di entrare in empatia con il pubblico dalla prima all’ultima nota del concerto, volteggiando per tutto il palco. Al di fuori di quelli che sono i gusti musicali di un singolo individuo, vale sicuramente la pena vedere una sua esibizione.

GT: Come ci si prepara a un concerto?

AR: Si studia. Ci sono molti “trucchi” del mestiere, ma come livello base basti sapere che a volte gli show sono studiati a tavolino e, di conseguenza, i vari componenti della band faranno sempre le stesse cose durante i momenti chiave dell’esibizione, se non addirittura per tutto il concerto. Di conseguenza, il grosso del lavoro di un fotografo spesso è documentarsi sulla scaletta che la band di turno porterà in tour, sfruttando comunicati stampa, contatti diretti e anche i video che i fan caricano sui social durante i concerti. In quel caso, si guarda quello che succede e ci si segna tutto quello che può tornare utile, dalle tempistiche alle posizioni dei componenti, fino ad arrivare alle particolarità del palco stesso, se magari ci sono dei dettagli che possono impreziosire lo scatto.

GT: Un consiglio per qualcuno che vuole cominciare una carriera nel mondo musicale?

AR: Se ti interessa veramente iniziare una carriera da fotografo nel mondo musicale, ci sono diversi modi per iniziare. Il più facile è quello di mettersi in contatto direttamente con delle webzine, mostrando qualche scatto. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, le testate sono sempre alla ricerca di fotografi volenterosi. Se si è agli inizi, invece, vale la pena farsi le ossa iniziando a fotografare nei locali della propria zona. I pub e i piccoli locali sono delle vere e proprie palestre, perché per assurdo è molto più facile andare a fotografare nelle grandi location come stadi e palazzetti, rispetto a spazi chiusi con luci non sempre perfette e molti momenti improvvisati. Anche in questo caso, a volte i locali hanno bisogno di un fotografo per gli spettacoli dal vivo: basta chiedere. Nulla vieta di mandare il proprio contatto alle band della zona, sicuramente anche loro avranno bisogno di qualche fotografia di qualità. Il tutto dipende da cosa vuoi fare. Se ti interessa occuparti del lato della produzione, quindi fare copertine e simili, sicuramente devi contattare le band. Se invece vuoi fare l’attività «in trincea» nel «pit», allora avvicinati a una rivista o a un locale e senti se hanno bisogno.

GT: In un mondo in cui esistono gli smartphone, ogni persona ha potenzialmente modo di fare delle fotografie per un concerto. Quanto conta in un simile contesto la fotografia professionale?

AR: Dipende tutto dal risultato che si vuole ottenere. Uno scatto professionale ad oggi è ancora l’unica forma di fotografia in grado di rispondere all’esigenza di avere dei contenuti da inserire in editoriali o per utilizzi ben specifici. Per quanto riguarda gli smartphone, bisogna stare attenti a come li si utilizza, perché hanno dei limiti fisici incolmabili. Difficilmente una rivista accetterà uno scatto di un primo piano realizzato zoomando con un cellulare da trenta metri. Oltretutto esistono ancora oggi limiti anche nella gestione delle luci e nella praticità stessa dello scatto. Non sono mezzi da demonizzare, perché per quanto riguarda la trasmissione di un’emozione, probabilmente la fotocamera di uno smartphone può arrivare a risultati sorprendenti, ma è tutto subordinato alle opportunità e alle esigenze che hai. In ogni caso, il concetto alla base è che in realtà il mezzo utilizzato conta solo a condizione che dietro di esso ci sia l’occhio di una persona capace. Anche la migliore delle macchine fotografiche, nelle mani sbagliate, non produrrà altro che brutte fotografie.

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