Salamida sarà Fedra: «Per me è la realizzazione di un sogno»

TEATRO. L’attrice di Villa d’Adda è la protagonista dello spettacolo dell’11 maggio al Teatro Greco di Siracusa per la regia di Paul Curran. «Nella tragedia di Euripide i silenzi e il “non detto” richiamano l’attuale mancanza di comunicazione reale che viviamo oggi».

Alessandra Salamida, attrice bergamasca originaria di Villa d’Adda, debutterà il prossimo 11 maggio come protagonista al Teatro Greco di Siracusa nell’antica tragedia greca “Fedra (Ippolito portatore di corona)” di Euripide. Lo spettacolo sarà diretto dal regista scozzese Paul Curran nella traduzione dal greco di Nicola Crocetti. Abbiamo raggiunto la nostra concittadina per farle qualche domanda.

Lei aveva già calcato il palco del teatro greco di Siracusa, anche se non da protagonista.

«Sì, ho preso parte a le “Coefore-Eumenidi” nel 2014 e l’anno dopo, sempre come corifea ma stavolta cantando anche in greco, alle “Supplici”, per la regia rispettivamente di Daniele Salvo e Moni Ovadia. Infine, sono stata corifea anche per un terzo regista, Gabriele Lavia, nel 2017».

Poi il provino della svolta, quello che l’ha consacrata Fedra.

«E pensare che non volevo neanche farlo; diciamo che all’inizio non osavo perché è estremamente difficile strappare la parte di protagonista senza avere un nome già celebre. Inoltre mi scoraggiava un po’ l’idea che il regista fosse straniero, mi sembrava una complicazione in più non parlare perfettamente la sua lingua. Invece ho scoperto che Paul Curran padroneggia l’italiano e, visto l’esito, ho davvero fatto bene ad andare. Tra l’altro il ruolo è per me una specie di sogno fin da ragazzina».

La sua passione per la tragedia greca viene da lontano, già da prima di diplomarsi come attrice professionista presso l’Accademia dei Filodrammatici di Milano.

«Mi sono laureata in beni culturali alla Statale di Milano con una tesi proprio sulla tragedia greca, che adoro da sempre. L’amore per il greco l’ho scoperto al Liceo classico Paolo Sarpi di Bergamo, in seguito mi sono messa a studiare anche greco moderno; è proprio il mio mondo».

Dov’è l’attualità di questo personaggio classico del lontano V secolo a.C.?

«Nonostante sia un testo del 428 a.C., Fedra è la tragedia in cui è stata descritta meglio la potenza distruttiva dell’eros. Incarnare una passione impossibile, su cui non abbiamo potere né colpa, significa dare forma a una vulnerabilità senza tempo e perciò anche contemporanea. Certo, con gli strumenti che abbiamo oggi, non lo chiameremmo più amore, bensì ossessione malsana, ma Fedra lo conosceva con quella parola. La sua è una follia intesa non come malattia mentale in senso stretto ma come una passione diventata ingestibile. Il tentativo di reprimere l’ossessione amorosa la porta a spossessarsi di sé e infine alla distruzione. Inoltre si tratta di un’opera piena di non detti e di silenzi, il che richiama l’attuale mancanza di comunicazione reale che viviamo oggi».

L’essere umano si continua a specchiare nei classici, in virtù della loro eterna universalità

«Credo sia così. Fedra dopo tutto è stata scritta da un uomo e ad interpretarla erano uomini, eppure già all’epoca in quel testo c’era così tanto che ancora ci riguarda, perché Euripide aveva davvero saputo indagare l’animo femminile».

Torniamo con la mente agli anni trascorsi al Liceo Sarpi.

«Sono stati anni duri, con insegnanti anziani e vecchio stampo, davvero appassionati ma anche esigenti. Devo dire che la fatica sui libri fatta allora è stata una ricchezza che mai più mi ha abbandonata. Lì, in quella cornice, ho respirato la bellezza di Città Alta, interiorizzato contenuti imperituri e soprattutto ho imparato la disciplina. Io devo tutto allo studio approfondito richiesto in quel Liceo cittadino. Se oggi sono molto forte è grazie a quella base, perché la cultura salva la vita».

Lei ha sempre studiato e lavorato assieme, forse oltre alla passione le è venuta in soccorso anche la tempra bergamasca.

«Oltre alla predisposizione alla fatica e alla propensione al sacrificio data dalle radici, tanta forza arriva anche dall’ironia che caratterizza la nostra gente. Poi, nella fattispecie, io vengo da una famiglia numerosa e l’amore per il teatro e il canto ce lo ha trasmesso mia nonna, che era una contadina. Ha avuto sette figli e quattordici nipoti tra cui un’attrice (cioè io), uno divenuto cantante lirico e un’altra che fa la presentatrice. Insomma siamo il frutto di gente semplice che però mai ci ha posto un limite o scoraggiato dal seguire i nostri sogni. E poi a Bergamo, o almeno nei paesi della provincia come il mio, è molto forte il senso di comunità e questo significa respirare solidarietà e veder operare tante associazioni di volontariato: prendere parte a questo tessuto valoriale fin da piccoli è un vantaggio, insegna ad avere fede nel domani».

C’è qualcosa che vorrebbe dire, dalle pagine del giornale che sfogliava fin da ragazzina, a chi lo legge oggi e ha ancora tanta strada da fare?

«Vorrei dire ai ragazzi di seguire la propria natura. La prima cosa è chiedersi chi si è, cosa ci rende felici e dove potremmo fare la differenza. Quando si sceglie la propria strada bisogna che ci assomigli, così che l’entusiasmo renda sopportabile la fatica. La passione e i sogni danno il senso alla vita. Insieme ai valori di cui ci siamo nutriti possono portare alla felicità».

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