In cattedra negli States
per lezioni di cucina italiana

Di italiani ambasciatori della cucina più apprezzata nei cinque continenti ce ne sono moltissimi, ma meno numerosi sono quelli che, oltre ad essere chef di valore, all’estero insegnano ai giovani come cucinare secondo lo stile del Bel Paese. In questa particolare categoria rientra il bergamasco Alberto Vanoli, chef e insegnante al Culinary Institute of America, situato nella città di Hyde Park, nello stato di New York.

Quarantottenne di Petosino (papà di Valsecca e l’altro ramo della famiglia di Valtorta), ha cominciato a lavorare al Cristallo Palace, a Bergamo, a fine anni ’80. Eppure la sua formazione era cominciata in un modo totalmente diverso, frequentando la scuola di elettromeccanica poi non portata a termine. «Non ho mai pensato che la cucina sarebbe stato il mio lavoro – racconta Alberto –. Ho passato 4 anni al Cristallo Palace, dopodiché ho girato un po’ di posti nella Bergamasca (per esempio il ristorante Gourmet di San Vigilio) grazie all’esperienza accumulata. Alla fine di novembre del 1993 sono stato per 7-8 mesi negli Stati Uniti: un mio amico lavorava là, e mi aveva chiesto di dargli una mano ad aprire un ristorante italiano a Soho, a sud di New York. Sono ritornato per un inverno, ma a New York avevo lasciato il mio curriculum». Che capitò allora nelle mani di Gianni Scappin, chef con cui Alberto avrebbe poi stretto un sodalizio importante.

Tre anni in California

«Sono ripartito per gli States – continua Alberto – nel ’95. Mi sono sposato con un’americana e insieme siamo andati a vivere in California, dove per tre anni ho fatto ancora cucina italiana. Poi abbiamo deciso di tornare nella East Coast: ho lavorato per un anno nel ristorante di Barbara Lynch a Boston, che lì è un locale molto noto. Ma io cercavo una posizione di maggiore responsabilità e l’ho trovata in un hotel, con ristorante italiano annesso, che stava per essere aperto a Filadelfia. La realtà dell’hotel – spiega però Alberto – è diversa da quella del ristorante: ci sono troppe regole, servizi di notte e nelle camere. Non mi piaceva, perciò mi sono licenziato, ho fatto un po’ di consulenza e poi mi sono trasferito nella Hudson Valley, a New Paltz, a 130 chilometri da Manhattan, dove ho trovato un posticino carino e dove io e mia moglie abbiamo sistemato e aperto un ristorante. Era l’agosto del 2001. È stata una bella esperienza, durata tre anni: lavoravamo con contadini locali, prendevo personalmente da loro gli ingredienti. Poi però mi sono separato e nel 2004 ho venduto il ristorante, non me la sentivo di portarlo avanti da solo. Quindi sono tornato un po’ in Italia, ma Gianni mi ha ricontattato segnalandomi il Cia».

Campus con 2.000 ragazzi

Si tratta del Culinary Institute of America, una scuola di cucina molto rinomata negli Usa che si trova nella città di Hyde Park (130 chilometri a nord della grande mela, dove aveva la casa l’ex presidente Roosvelt), frequentata da duemila studenti all’anno e dotata di campus come una normale università. Da lì Alberto non si è più mosso. «È nata l’idea di andarvi ad insegnare – racconta infatti Alberto –, e per questo ruolo vale di più avere molti anni di esperienza alle spalle rispetto ai titoli accademici. Sono stato lì tre anni, e ho cominciato a insegnare le basi della cucina, come la cottura e i tagli. Io stesso ho dovuto frequentare dei corsi per imparare ad insegnare. Poi mi sono spostato nel ristorante della scuola (il “Caterina De’ Medici”). Mantengo il doppio ruolo di chef e insegnante (per la precisione di “chef/instructor”: il rango esatto raggiunto, poi, è quello di “assistant professor”): infatti i miei cuochi sono gli studenti, a cui devo insegnare ma con i quali devo anche garantire il servizio ai clienti esterni del ristorante. Gli studenti della scuola vengono da tutto il mondo: koreani, indiani, giapponesi, messicani, ma anche un paio di italiani venuti apposta dal nostro paese. Gianni cura il pranzo, io la cena. La scuola nei due anni di frequenza insegna le basi della cucina e poi i piatti tipici di diversi paesi del mondo. Quindi i ragazzi fanno uno stage di sei mesi, poi imparano vino, sala, pasticceria, e alla fine lavorano per un periodo di tempo nei tre ristoranti della scuola (americano, francese e italiano). In totale, all’interno del Cia sono un centinaio gli chef/professori».

Due libri di ricette

Alberto ha passato 22 anni negli Usa, 11 nel Cia. Qui ha anche scritto due libri sulla cucina italiana (insieme a Gianni, ad un autore specializzato sui vini e ad uno chef italiano che si è buttato nel mondo della fotografia dei piatti cucinati): uno parla della diverse cucine regionali italiane divise per stagioni, l’altro dei primi piatti, e d’altronde la specialità di Alberto sono i risotti. «Degli Stati Uniti – commenta – non mi piace il fatto che non si trovino prodotti italiani buoni, e io mangio ancora italiano! In Italia dovunque vai ci sono il pesce, la pizza o il gelato freschi, mentre là queste cose, così come i salumi e i formaggi freschi, sono difficili da trovare. Parlo dei prodotti per la casa ovviamente, il ristorante ha canali diversi. Devo andare a Manhattan per mangiare, per esempio, un buon gelato».

Nostalgia di Bergamo

«Dell’Italia e di Bergamo – spiega Alberto – mi manca camminare sull’acciottolato presente in alcuni nostri paesi, mi mancano le strade vecchie, che qui non ci sono. Torno ogni due anni, ma la mia famiglia e i miei parenti mi vengono a trovare spesso: mio fratello Fabio, poi, vive a Manhattan da 7 anni. Certamente – conclude – con la ristorazione credo che non avrò mai problemi di lavoro, in più io ho accumulato un po’ di esperienza e la cucina italiana è ben vista ovunque. Il mio futuro però è incerto. La scuola è un bel posto e da dieci anni ho una compagna giapponese, Yukie, insieme alla quale vivo in un paesino in una vallata bellissima (ad Hurley, 150 chilometri da Manhattan), immerso nel verde, con laghi e tanti animali (ci sono perfino gli orsi!). Ma dopo un po’ di anni ho sempre voglia di spostarmi: in America ho comprato casa, ho anche l’importantissima assicurazione sanitaria, ma se ci fosse un’offerta migliore che mi stimolasse mi sposterei».

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