In Usa sulle tracce
dei filosofi europei

Da Treviglio allo Holy Apostles College and Seminary di Cromwell, Connecticut: la parabola di Michela Beatrice Ferri, giovane studiosa nata e cresciuta nella città della Bassa Bergamasca, diplomata al liceo classico locale con 100/100, laurea specialistica in filosofia alla Statale sulla cosiddetta «scuola di Milano». «Il 19 gennaio 2009 – ricorda Michela Beatrice – lo stesso giorno in cui Barack Obama avviava il primo mandato della sua presidenza, ho vinto il concorso di dottorato presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Milano».

« Da quel giorno mi sono occupata di come si insegna la filosofia nelle università americane, della diffusione della filosofia europea nei colleges statunitensi, e - in generale - di storia della filosofia negli Stati Uniti. Da quel giorno ho dedicato le mie ricerche alle biografie di quegli intellettuali europei che si rifugiarono negli Stati Uniti a causa delle persecuzioni nazifasciste».

Da qui il primo viaggio negli States, non per una vacanza - «visti i costi e la modesta situazione economica della mia famiglia non avrei mai potuto permettermelo» -, ma grazie a una borsa di studio che le consente di stare a New York nell’estate del 2010 «per ricostruire le biografie di quei filosofi, scienziati, storici, politologi, che erano sbarcati al porto di Manhattan tra il 1937 e il 1940. Solitamente sono gli statunitensi che si recano in Europa per cercare la storia: io ho fatto esattamente il contrario. Oggigiorno i turisti, teenagers compresi, si recano negli Stati Uniti come nulla fosse, ma degli Stati Uniti colgono solo la parte “turistica”. Vivere e lavorare negli Usa è tutt’altra cosa. Soprattutto se parti con la voglia di fare ricerca e quasi incurante di ciò che potrebbe essere la vita a Manhattan per una ragazza bergamasca di provincia, che non ama fare shopping, e si reca negli Stati Uniti solo per lavoro, per senso del dovere, consapevole del costo del viaggio e di ciò che lascia a casa: le speranze di chi ha finanziato la borsa, dei docenti, di due genitori che si chiedono il motivo per cui io sia partita. E sono partita perché sapevo in quale direzione si stavano spostando i miei studi, sapevo che una ricerca originale avrebbe potuto essere il solo modo per ottenere, dopo il dottorato, delle collaborazioni accademiche, e non cadere nelle sabbie mobili della totale precarietà, in un Paese - l’Italia - che spesso riserva atteggiamenti di rifiuto, o diffidenza, verso i giovani ricercatori».

Quelle settimane di lavoro presso la Raymond Fogelman Library della New School for Social Research, sono state «il punto di partenza di una strada che percorro da ormai sette anni. Mi sono ritrovata ad essere, del tutto inaspettatamente, vicina di casa del professor Don Ihde, uno dei filosofi americani che più stimo, specialista in filosofia della Scienza e della Tecnologia». Dopo la discussione, a Milano, della tesi di dottorato, Michela torna a New York, anche per intervistare il noto architetto Daniel Libeskind sul rapporto tra architettura, arte, scienza e filosofia nell’opera di Leonardo da Vinci. Poi passa a Berkeley, dove per un paio di mesi è «visiting professor» presso il «Center for Science, Tecnhology, Medicine and Society». In California ha modo di sperimentare la vita di «due tra i più importanti campus universitari al mondo: Berkeley, appunto, e Stanford. Lì ho capito cosa sia veramente la “Silicon Valley”, e dialogato con alcune delle geniali figure di italiani che ne hanno fatto la storia». Il tutto, ribadisce la studiosa, «con spirito lontanissimo da quello della turista, viaggiatrice, amante dello shopping: durante i periodi passati a Manhattan e nella Silicon Valley mangiavo solo due volte al giorno. Una bella colazione (in casa, con i panini acquistati al Trader’s Joe di Union Square a Manhattan) e un bel pranzo (cibo acquistato nello stesso Trader’s Joe, mai in un locale - se non una volta a Palo Alto per non svenire a causa della pancia vuota). Non mangiavo due sole volte per imitare le abitudini statunitensi. Lo facevo per risparmiare, poter acquistare i libri e fare fotocopie. Con la mente proiettata verso un futuro che appariva “italianamente” duro, sul piano della situazione lavorativa - e pensando che non sarei più tornata in quei luoghi. Ho voluto dedicare alla ricerca le intere giornate americane. E fare ricerca proprio dove le ricerche sono localizzate significa entrare nella storia dei posti, sentire il profumo del passato, entrare in contatto con i protagonisti di determinati avvenimenti».

Le principiali differenze tra il nostro modo di vivere e l’American Way of life? «È dura parlare dell’American Way of life oggi, in un periodo in cui anche la nostra Europa si è (quasi) del tutto americanizzata. Negli Stati Uniti non esistono ritmi di vita mossi dalla tradizione. Anche Milano è una città ormai aperta al mondo, ma pranzare alle tre del pomeriggio è ancora insolito. La differenza principale sta negli ambienti di lavoro: lì si vede, si percepisce nitidamente. Dal punto di vista accademico, in America ho trovato - sia a Manhattan che a San Francisco nella Bay Area - ambienti accoglienti, persone che hanno dato valore alle mie ricerche, che hanno voluto e saputo dialogare in maniera costruttiva». Come si studia? «Tutto dipende dall’università che si frequenta. Sedi come Berkeley, Stanford, la New School for Social Research, la New York University, il Mit sono ottimi centri. Così come le università cattoliche degli Stati Uniti, e tra queste le 18 fondate dai gesuiti». Ora Michela lavora per un’università cattolica, fondata dai Padri Missionari dei Santi Apostoli nel 1956, in cui si studiano filosofia, teologia, bioetica, estetica: l’Holy Apostles College. «I docenti che mi hanno assunta hanno avuto con me fitti colloqui, analizzato i temi delle mie ricerche, verificato le mie conoscenze nell’ambito della lingua inglese. Insomma, prima di essere accettata mi sono preparata, dimostrando che la lingua e cultura americane erano state da me assorbite. Chi si reca negli Stati Uniti per studiare potrebbe, a mio parere, attendere - se non si tratta di Masters universitari o di corsi specifici - e frequentare ottime università qui in Italia. E poi partire per gli Stati Uniti per lavoro, quando si conosce già il mondo universitario, per dare significato, per non vanificare i propri sforzi, e non per assoggettarsi ad una “moda”, quale rischia di diventare, oggi, troppo spesso, il nostro mito americano».

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