Sub morì per attrezzatura inadeguata
Condannato a 18 mesi il datore di lavoro

Ha patteggiato un anno e mezzo con la sospensione condizionale il 49enne di Trento titolare della ditta di Villazzano specializzata in lavori subacquei, datore di lavoro di Alessandro Cuppini, il sommozzatore di 47 anni morto il 9 dicembre 2008 mentre era impegnato nella manutenzione della diga dell’Enel a San Pellegrino.

Il sub, che abitava a Terzolas, in provincia di Trento, era morto per una acuta insufficienza respiratoria, mentre si trovava sott’acqua, impegnato in un’operazione di «cianfrinatura», ossia tappare con delle pezze di tessuto le falle fra le paratoie metalliche dello sbarramento sul Brembo, situato a nord del ponte Cavour, vicino a via Aldo Moro, danneggiato durante la piena del 30 ottobre 2008.

Secondo l’accusa, il sommozzatore lavorava senza il brevetto subacqueo di operatore tecnico e non era stato sottoposto agli accertamenti sanitari obbligatori per questo tipo di lavoro. Inoltre il pm contestava a al 49enne la sottovalutazione del rischio legato al lavoro in una zona segnalata come pericolosa. Non solo: secondo le contestazioni non erano stati designati lavoratori che potessero intervenire per gestire l’emergenza e non era stata fornita ad Alessandro Cuppini un’idonea formazione professionale al fine di fargli acquisire idonee competenze per eseguire in sicurezza i lavori subacquei.

Ma è sull’equipaggiamento che si sono concentrate le accuse del pubblico ministero. Per l’accusa, infatti, il 49enne avrebbe fornito al sommozzatore «attrezzatura subacquea in cattivo stato di conservazione e manutenzione». Scrive il pm nel capo d’imputazione che «la manutenzione veniva fatta mediante l’utilizzo di pezzi non originali che determinavano il malfunzionamento dell’erogatore del primo stadio e della maschera: quest’ultima presentava una rottura incollata sulla ghiera di plastica». E poi, «la sporcizia riportata all’interno del primo stadio poteva ingenerare una continua erogazione all’interno della maschera che poteva ostacolare la corretta respirazione/espirazione creando i presupposti dell’affanno».

Inoltre, stando alle contestazioni, la dotazione di Cuppini non prevedeva sistemi alternativi di respirazione né era stato controllato che fosse attivo il sistema di comunicazione tra il sommozzatore in acqua e i colleghi a terra. Infine, sempre secondo il pm, il 49enne «non disponeva la presenza di un subacqueo di sicurezza». In pratica, conclude il pm nel suo capo d’imputazione, Cuppini, che stava operando in acque molto fredde, «a causa della pessima manutenzione dell’attrezzatura si trovava in stato di difficoltà respiratoria con accumulo di anidride carbonica».

Per la mancanza di un sistema di comunicazione, il sub non era riuscito ad avvertire i colleghi in superficie. I quali, sempre stando alle conclusioni del pm, non avevano potuto recuperarlo, perché mancava pure l’imbragatura. Quando era stato recuperato, per Alessandro Cuppini - che in passato aveva lavorato come cineoperatore freelance in zone «calde» del pianeta - non c’era purtroppo già più nulla da fare.

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