Madre Coraggio dal Pakistan
Il suo amore ha vinto la morte

di Marco Dell'Oro
Il piccolo Fahd allarga il sorriso. Lui ancora non lo sa, ma è il protagonista di una storia bella, onesta e nobile: quando sarà un po' più grande, il papà e la mamma gliela racconteranno.

Il piccolo Fahd allarga il sorriso e illumina il più bel saluto che potessimo aspettarci. Ha appena 3 mesi di vita, lui ancora non lo sa, ma è il protagonista di una storia bella, onesta e nobile: quando sarà un po' più grande, il papà e la mamma gliela racconteranno. Il suo papà si chiama Hussain Mudassar, ha 39 anni, viene dal Pakistan e vive ad Albano, è operaio alla Omplast di Trescore. La mamma, Mehwish, 28 anni, si prende cura della famiglia, che comprende anche il fratello maggiore di Fahd, Talal, 3 anni e tre mesi.

Un giorno, l'estate scorsa, Mehwish si sveglia con atroci dolori alla testa. L'occhio sinistro è come morto. Buio. All'ospedale, poche ore dopo, i medici non ci mettono molto a capire. La causa di quel dolore è una massa tumorale che schiaccia il nervo ottico. Da Seriate viene trasferita ai Riuniti. «La situazione – ricorda ora il neurochirurgo Antonio Signorelli – era disperata. Se lasciato al suo destino, l'adenoma benigno sarebbe progredito fino a danneggiare anche l'altro occhio. Irreparabilmente. Ma la donna era alla 27ª settimana di gravidanza, il feto non avrebbe potuto sopportare un intervento». «E poi – aggiunge la dottoressa Daniela Gianola, endocrinologa che da tanti anni si prende cura dei pazienti affetti da adenoma dell'ipofisi – questo tipo di tumore produce deficit ormonali che in gravidanza causano rischi davvero altissimi». Era una mattina d'agosto e il dottor Signorelli, in ospedale, aveva davanti due ragazzi che potevano essere i suoi figli. Disse loro la verità, come l'avrebbe detta ai suoi figli: ogni giorno che passa senza operare è un rischio per Mehwish, e non solo per i suoi occhi. Quel giorno i due ragazzi restarono a lungo in silenzio. E anche adesso, dopo mesi, ricordare è una pena. Hussain è diventato uomo in fretta. Ha lasciato il Pakistan quando era ancora un ragazzo per andare a lavorare ad Abu Dhabi insieme al padre. Negli Emirati Arabi stava bene, ma la sirena dell'Europa era irresistibile. Hussain ha scelto l'Italia, Bergamo: ha trovato lavoro a Trescore e casa ad Albano Sant'Alessandro, si è rimboccato le maniche e ha cominciato a risparmiare. Ha risparmiato fino a quando ha potuto telefonare a casa e dire alla moglie: «Raggiungimi in Italia». Hussain è un ragazzo normale. È innamorato della sua donna. Che cosa hai pensato, Hussain, quando il dottore ti ha spiegato i rischi che avrebbe corso Mehwish, se non l'avessero operata subito? Il ricordo punge ancora. Gli occhi si riempiono di lacrime. La gola è un nodo e la voce non vuol saperne di uscire. Sua moglie lo guarda e piange anche lei. Un singhiozzo più forte sveglia il piccolo Fahd, che stava sonnecchiando in braccio alla mamma.

Hussain ritrova la voce: «Ho pensato che io amo mia moglie, e senza mia moglie non avrei potuto vivere, né io né Talal, il nostro primogenito. Ho pensato che non potevamo rischiare, ho pensato che doveva essere operata subito». Mehwish è una ragazza bella e dolce, i lineamenti delicati. Parla poco però, quando parla, le parole sono come cristalli: «È stato importante, il dottore. Ci ha spiegato che esisteva un'altra strada, più difficile: rimandare l'operazione, il tempo necessario per far prendere un po' di forze al feto». «Siamo rimasti a parlare per due ore – ricorda il dottor Signorelli – perché volevo essere sicuro che capissero bene quello che stava accadendo». Hussain e Mehwish, quel giorno, hanno capito: «Siamo musulmani, crediamo in Dio. Il dottore ci ha fatto vedere quel che noi, da soli, non avevamo visto. È stato importante, il dottore». Siete molto religiosi? «Siamo religiosi. Preghiamo cinque volte al giorno, come da noi è regola, ma non facciamo nulla di particolare. Alla moschea andiamo quando possiamo, cioè raramente, perché gli orari di mio marito non ce lo consentono». Usciti dall'ospedale, per Hussain e Mehwish sono cominciati i giorni dell'attesa e dell'angoscia. I controlli medici erano costanti ma ogni dolore, anche il più piccolo, era uno spavento. Le giornate sono lunghe per Mehwish, la solitudine pesa. «Mio marito mi telefonava cinque, sei volte al giorno, mia mamma mi chiamava tutti i giorni dal Pakistan, ma era peggio, perché appena sentiva la mia voce iniziava a piangere».

Il Pakistan è lontano, troppo lontano per organizzare un viaggio, non c'è tempo per i visti, non c'è tempo per niente. Mehwish è qui, ad Albano, e i suoi genitori sono dall'altra parte del pianeta. Per fortuna la famiglia di Hussain è piena di giramondo. Una sorella abita in Norvegia. Un colpo di telefono e atterra a Orio, sarà lei a prendersi cura di Mehwish e del piccolo Talal. Con la cognata accanto, i giorni passano meno lenti, l'angoscia sembra più lieve. Intanto il feto cresce. È il 21 ottobre quando Mehwish entra in sala parto. Uscirà con in braccio Fahd, nato al settimo mese, 2 chili e 700 grammi. Sanissimo. Otto giorni dopo, Mehwish rientra in sala operatoria. Quando esce, il tumore è sconfitto. Avete festeggiato? «Una torta con gli amici – sorridono – basta poco per condividere la felicità. Il mio datore di lavoro, Giuseppe Fretti, è stato generoso – dice Hussain – mi ha concesso tre mesi di congedo paternità». E in Pakistan? «Ah, laggiù sì che hanno festeggiato. Ci hanno raccontato che sembrava un secondo matrimonio, mancavamo solo noi…». L'intervista è finita. Ormai Fahd è sveglissimo e continua a sorridere. Che cosa significa, Fahd? «Tigre», risponde il papà. L'avete chiamato così perché ha cominciato presto a combattere, perché è stato più forte della morte? «No, il nome l'avevo deciso molto prima che nascesse, è stato il primo nome che mi è venuto in mente quando Mehwish mi ha detto che aspettava un bambino». È una storia semplice. Quando Fahd sarà grande, gliela racconteranno.

Marco Dell'Oro

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