L'Eco intervista Pierluigi Bersani:
«La Lega ha tradito, noi concreti»

di Giorgio Gandola
In fuga col vento in faccia e il gruppo che insegue. Pier Luigi Bersani, da Bergamo, imbocca la strada dell'ultima salita, quella che porta alla Cima Coppi e al traguardo di una tornata elettorale corta e intensa, melliflua ma feroce.

In fuga col vento in faccia e il gruppo che insegue. Pier Luigi Bersani, da Bergamo, imbocca la strada dell'ultima salita, quella che porta alla Cima Coppi e al traguardo di una tornata elettorale corta e intensa, melliflua ma feroce.

Tutto era cominciato dal gasometro di famiglia, atmosfere da bassa padana e da quadro di Hopper. Erano i giorni delle primarie, bastavano la Topolino amaranto e le volute di fumo del toscano per tenere a bada Renzi. Con Berlusconi e Monti la faccenda è diversa, la salita impone di spingere sui pedali, quattro-cinque punti non sono un vantaggio rassicurante e la faccenda del Monte dei Paschi è acido lattico.

Ecco perché il leader del centrosinistra affronta con determinazione questo Giro di Lombardia fra quel 35% di indecisi che deciderà vittoria e sconfitta. È qui l'Ohio d'Italia, è qui il senso di tutto. Bersani lo sa e accetta la sfida. Borges diceva che «felicità è il ciclista in fuga, non la premiazione sul traguardo». Ma qui conta essere in fuga il 25 febbraio.

«Quando dico che sono in fuga – spiega Bersani – non mi riferisco ai sondaggi ma al fatto che noi siamo più avanti. Da vent'anni, sbagliando, il sistema politico si è basato sulle persone. Non si capisce cosa c'è dietro Berlusconi, cosa c'è dietro Monti, cosa c'è dietro Grillo. Cosa c'è dietro e cosa ci sarà dopo questi leader. Noi siamo dentro un nuovo sistema politico, dietro e dopo di me c'è il Pd. Siamo usciti dai personalismi, da un sistema che dipende dalle persone e non dalle idee. In questo senso sono la lepre. So che esiste la destra, non ho mai detto che avrei vinto. Ma percepisco nella gente la volontà di cambiamento, che si esprime talvolta nella rabbia impotente. Ma anche nella prospettiva di governo che possiamo dare noi. Un governo senza cambiamento sarebbe inutile».

La Lombardia arriva da 15 anni di Formigoni, resta la roccaforte della Lega che conosce le pieghe delle realtà locali. Come pensa di dare la spallata?
«Pdl e Lega la spallata se la sono data da soli. In questi vent'anni hanno tradito le esigenze che arrivavano da una realtà dinamica come quella lombarda. Nessuna promessa mantenuta: nè fiscale, nè di legalità, nè di sobrietà democratica. E l'esito è sotto gli occhi di tutti: recessione come nessun altro in Europa, finanza pubblica in totale squilibrio e micidiale distacco fa politica e cittadini. Noi risponderemo alle richieste della regione simbolo del Nord senza raccontare favole, iniettando fiducia attraverso la verità e la concretezza».

Il centrosinistra è stato a lungo accusato di avere lasciato la regione che produce il 20% del pil al centrodestra per un malinteso senso statalista. Non ha saputo intercettare il grido delle piccole imprese che chiedono meno Stato, meno spesa, meno tasse. Così Giannino fa il pieno.
«Purtroppo c'è del vero in tutto questo. Non siamo stati statalisti, ma piuttosto pedagogici. Non abbiamo ascoltato il buon senso comune della gente lombarda. Ma se guardo gli ultimi risultati dico che abbiamo invertito la tendenza. Negli ultimi anni in Lombardia abbiamo vinto. E lo abbiamo fatto grazie alla riscossa civica. Dietro a Pisapia e dietro ad Ambrosoli c'è un popolo di stampo europeo con un grande senso civico. Basti pensare agli enormi meccanismi di solidarietà della Lombardia; su questa sensibilità dobbiamo investire ancora. Per il sistema delle piccole imprese dobbiamo essere zero ideologici e molto concreti. Non siamo qui per un voto in più al Senato o in Regione, siamo qui per far uscire il Paese dalla più grande crisi del Dopoguerra. Ma non possiamo pensare di uscirne se il Nord si rinchiude fra le palizzate e pensa di stampare moneta...».

Al di là delle boutades, questa campagna elettorale fatta di slogan s'è dimenticata dei contenuti.
«La nostra concretezza è documentata. Ecco le prime mosse. 1) Per agevolare la liquidità e i pagamenti da parte della pubblica amministrazione emetteremo buoni del Tesoro con il ricavato per le imprese che attendono i rimborsi. I mercati capiranno che sono soldi destinati a invertire una tendenza. 2) La Cassa depositi e prestiti sarà coinvolta per finanziare le piccole e medie imprese nel medio periodo, così si rimetterà in moto la liquidità. 3) Un grande piano di piccole opere da affidare ai Comuni, da finanziare con una riduzione degli investimenti per le spese militari, con investimenti europei e con l'impegno a far allentare il patto di stabilità. Tutto ciò porterebbe sette, otto miliardi da investire in scuole e ospedali nei prossimi tre anni. 4) Il lancio di Industria 2020, un progetto che coinvolge anche Agricoltura, Commercio, Turismo. Per aiutare le imprese a capitalizzarsi, internazionalizzarsi, mettere in rete le capacità e  investire in ricerca in sintonia con le università. 5) Economia verde e banda larga: si è dormito troppo».

Elezioni regionali: Ambrosoli è un candidato metropolitano, potrebbe vincere a Milano. Ma nell'Ohio della provincia, dei laghi e delle valli fatica a farsi conoscere.
«Ambrosoli è una scelta di sostegno al civismo. È una persona che, dovendo rappresentare il nuovo, ha il pregio della novità stessa e il limite di non essere abbastanza conosciuto. Dobbiamo compiere ogni sforzo per far sì che una persona capace e perbene come lui venga conosciuta. Una volta conosciuta, piace».

Per il Pirellone è un testa a testa con Maroni. La Lega si è rigenerata.
«Bisogna essere chiari: qui o c'è Ambrosoli o c'è il leghismo. Sono due idee totalmente differenti di Lombardia e di Europa. Noi vogliamo una Lombardia senza barriere, vincente in un'Europa che non è solo fiscal compact, ma anche cultura, diritti, circolazione delle idee e delle merci. Il ripiegamento ha portato e porta solo danni. Ancora ieri Monti ha parlato contro il voto disgiunto. Con tutto il rispetto, al voto "semiutile" non credo. I voti hanno tutti la stessa dignità, possono essere utili per la protesta, per la testimonianza, per la fedeltà. Ma se il voto dev'essere utile per battere il leghismo, ce n'è uno solo. Quello ad Ambrosoli».

Fra i moderati c'è un timore diffuso, la sindrome del 2006. Quando alcuni ministri andavano in piazza con la Cgil a contestare il governo Prodi di cui facevano parte. Oggi non potremmo permettercelo.
«È un riflesso ottico del quale siamo vittime. Allora al governo c'erano 12 partiti e non c'era il Pd. Oggi c'è la prima forza politica del Paese, che è passata attraverso le primarie chiedendo a tre milioni di persone di decidere chi dirigerà il traffico. Ora i partiti sono tre o quattro e hanno stretto un patto che stabilisce, in caso di dissenso sulle politiche di governo, una verifica a maggioranza. Noi ci siamo onestamente fatti vedere nella foto di gruppo, i nostri avversari no. Berlusconi, Maroni e Storace non sono d'accordo neppure sul candidato premier. Monti, Fini e Casini sono un esempio di mimetismo. E anche Ingroia, Diliberto e Ferrero avrebbero ragioni molto più profonde delle nostre per disgregarsi il giorno dopo».

Berlusconi gioca a chi la spara più grossa, anche Monti si fa vedere con un cagnolino in braccio. C'è la sensazione di una lunga ricreazione. Ma il 26 mattina suonerà la campanella e i problemi del Paese saranno di nuovo qui, enormi. Quali sono le sue tre priorità?
«Ieri un disoccupato si è impiccato con in mano la Costituzione. Come ne usciamo? Non certo con il cabaret. Il giorno dopo le elezioni vorrei avere tre priorità. Prima: badare a chi non riesce a mangiare due volte al giorno. Alla prima riunione in Sala Verde vorrei invitare anche la Caritas e chiedere come siamo messi. Seconda: intervenire sulla moralità della politica. Abbatterne i costi, eliminare i conflitti d'interesse, intervenire sulla corruzione. Terza: lavoro, un piano delle opere da fare, il pagamento delle imprese creditrici dello Stato. Note di inversione di tendenza dovrebbero caratterizzare i primi cento giorni. Il 2013 sarà un anno molto duro, ma sul 2014 dobbiamo mettere numerosi segni più dove adesso c'è il meno».

Il voto cattolico è importante, in Lombardia può fare la differenza. Nella nostra terra il cattolicesimo sociale è molto forte, ma il centrosinistra fatica a tenere insieme l'anima cattolica con l'anima iper laica. Come pensa di muoversi?
«Sui temi sociali non vedo problemi, c'è consonanza larga. Sui temi etici la discussione è aperta. Sul fine vita non ci sarà nessuna politica per l'eutanasia, ma mondi vitali da valorizzare. E non si azzardi a dettare il compito chi non ha mai assistito un moribondo. Non vogliamo più ignorare i temi antropologici. Li affronteremo con un umanesimo condiviso, senza astrattezze o radicalizzazioni; cercheremo soluzioni che rispettino la dignità della persona. La Chiesa ha diritto e dovere di intervenire nell'agorà. Poi la politica deve cercare le risposte. E il politico deve sforzarsi di ragionare con la coscienza di tutti, non solo con la sua».

C'è il 35% di indecisi e ci sono due settimane per portarli a casa. Come?
«Attraverserò la Lombardia e quel che resta dell'Italia e dirò: sono arrabbiato come voi, ma la rabbia da sola non porta da nessuna parte. Serve un partito solido, servono programmi seri. Serve sognare con i piedi per terra».

Giorgio Gandola


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