L’editoriale
Scozia, se piccolo non è più bello

di Franco Cattaneo

Sarà pur bella, ma speriamo sia anche impossibile. Il referendum di oggi in Scozia per decidere l’indipendenza dal Regno Unito racconta molto delle turbolenze europee e ci riguarda da vicino: come italiani ed europei.

di Franco Cattaneo

Sarà pur bella, ma speriamo sia anche impossibile. Il referendum di oggi in Scozia per decidere l’indipendenza dal Regno Unito racconta molto delle turbolenze europee e ci riguarda da vicino: come italiani ed europei. Il voto, caricato di Storia, con il suo volto romantico ma che parla la lingua modernissima del portafogli, cade in una fase in cui da noi la questione del Nord è stata un po’ messa ai margini dalla Grande Crisi e nel frattempo la selezione global ha cambiato pelle all’economia del Lombardo-Veneto e sul versante politico lo tsunami Renzi ha fatto il resto.

Si capisce così perché la Lega non si scaldi più di tanto, non

oltre la difesa d’ufficio: l’invenzione dell’inesistente Padania non regge il confronto con una storia vera come quella della Scozia, segnata da un carattere nazionale molto orgoglioso, e gli stessi indipendentisti sono europeisti, cosa diversa dallo stare con Marine Le Pen. Dal governo Monti in poi abbiamo capito sulla nostra pelle che piccolo non è più bello: sarà più umano e gestibile, ma non conveniente. La mistica del territorio s’è infranta sull’asse Roma-Bruxelles, la crisi dei debiti sovrani e dell’euro ha rilanciato il centralismo dello Stato, che a sua volta ha ceduto sovranità all’Europa. E quindi anche gli scozzesi dovranno pensarci bene, come ha suggerito la saggia regina Elisabetta, perché inseguendo una nuova Norvegia potrebbero ritrovarsi in una povera Grecia senza sole. È una vicenda di cuore e ragione, ma c’è sempre qualche filo nascosto che tiene insieme passato e presente.

La Scozia un tempo povera e depressa, l’equivalente del nostro Meridione, dopo essere stata umiliata dalla cura da cavallo della Thatcher, oggi è assisa sul business del petrolio del Mare del Nord e della produzione di whisky: l’area più ricca della Gran Bretagna, al 14° posto fra i Paesi dell’Ocse. Si sente vittima di un’ingiustiza storica, non è felice, ma vive nel benessere, la stessa ricchezza che è l’esito anche della devolution decisa da Blair sul finire degli anni ’90 con un Parlamento autonomo e un regime fiscale favorevole.

Mettete insieme le principali aree sensibili delle piccole patrie (Catalogna, Paesi Baschi e Fiandre) e troverete questi elementi in comune: un senso d’identità estremo, una relativa agiatezza e il conflitto fra la periferia e la capitale, fra l’alto e il basso, fra il popolo inteso su base etnica e l’establishment. Il vicino e il lontano, noi e gli altri, la miopia dell’autosufficienza mentre sappiamo che nel mondo globale tutto si tiene.

Per quanto il dibattito in Scozia sia stato civile e democratico, questo populismo istituzionale, come l’ha chiamato Enrico Letta, s’affianca a quella deriva che alle recenti europee ha incassato un quarto dei voti. Anche il referendum in Scozia, spogliato del folclore e del mito di Braveheart, dice che, in questi anni malati dell’Europa, il malcontento è la nuova normalità. E come prospettiva storica s’inserisce nel disordine seguito al crollo del Muro: la fine della guerra fredda ha risvegliato dal sonno le piccole patrie, mentre gli Stati tradizionali hanno subito la tendenza a disgregarsi sull’onda dell’autodeterminazione dei popoli, l’espressione collettiva della libertà individuale. C’è chi, come la Cecoslovacchia, ha scelto il divorzio di velluto. E c’è chi, come la Jugoslavia di Tito, s’è infilata nell’orrore del mattatoio balcanico. E ora, nell’era di Putin imperante, abbiamo Crimea e Ucraina. Come ha osservato sul «Messaggero» lo storico Alessandro Campi, «l’unione tra diversi, all’interno di un sistema di regole comuni, non fa più la forza».

Noi possiamo aggiungere che le opinioni pubbliche sono sempre meno disponibili a scambiare libertà con solidarietà. Gli indipendentisti scozzesi sono più convinti che convincenti, in quanto basta il buon senso per immaginare la portata dell’eventuale terremoto istituzionale ed economico che non avrebbe neppure il conforto del realismo. Perché alla fine, in una situazione in bilico fra sì e no, più che l’amor patrio potrà il conto del dare e dell’avere.

In fondo un calcolo errato (un’avventura coloniale fallita e le casse nazionali quasi alla bancarotta) è all’origine dei 307 anni vissuti fra amore e odio con l’Inghilterra. Rovesciando lo spot di Sean Connery, l’icona dei secessionisti, gli scozzesi hanno una possibilità troppo bella per sprecarla con una scelta sbagliata.

© RIPRODUZIONE RISERVATA