«Dialogo e educare alla diversità»
La lettura dell’Enciclica Laudato Sì’

Abbiamo chiesto un commento in proposito al bergamasco Paolo Magri, vicepresidente esecutivo e direttore dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale), il principale centro di studi e formazione per la diplomazia italiana.

Dovrà essere ricordato come un anno storico per l’umanità il 2015? Di sicuro è un anno chiave per gli accordi internazionali sul clima, che hanno visto le nazioni incontrarsi, prima a New York, a settembre, e poi a Parigi tra novembre e dicembre, entrambe per iniziativa della Organizzazione delle nazioni unite (Onu). Nella capitale francese si è svolta la ventunesima Conferenza delle parti (Cop21), , che ha ratificato alcune decisioni importanti per la sopravvivenza del pianeta, come ad esempio l’impegno a contenere entro i 2 gradi l’aumento della temperatura per fine secolo. Papa Francesco non ha voluto far mancare la sua voce, portandola di persona al vertice delle Nazioni unite a New York il 25 settembre, ma soprattutto attraverso l’Enciclica “Laudato si’”, uscita nel maggio scorso. Nella prima parte del quinto capitolo della lettera, di cui abbiamo pubblicato ampli stralci nelle pagine precedenti, il Papa affronta il tema del dialogo sull’ambiente nella politica internazionale e in particolare i grandi vertici tra capi delle nazioni.
Abbiamo chiesto un commento in proposito al bergamasco Paolo Magri, vicepresidente esecutivo e direttore dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale), il principale centro di studi e formazione per la diplomazia italiana.

L’Enciclica è stata scritta prima del vertice di Parigi dello scorso dicembre. Papa Francesco si è rallegrato per i risultati di quel summit, altri lo hanno contestato, i più dimenticato. Lei ritiene che Parigi abbia effettivamente rappresentato la svolta storica che i suoi organizzatori hanno proclamato?

Non una svolta storica, probabilmente però un momento storico. A Parigi i paesi convenuti hanno dimostrato di aver preso finalmente consapevolezza che, senza dare segnali politici incoraggianti dopo anni di fallimenti, la cooperazione climatica internazionale avrebbe potuto collassare su se stessa. È vero che il livello degli impegni sottoscritti a questo tipo di vertici è sempre inferiore a quanto sarebbe auspicabile. Tuttavia il vertice Cop21 ha gettato le basi per una più stretta cooperazione futura: impegni nazionali volontari rivisti ogni cinque anni; responsabilità comuni ma differenziate per ciascun paese; l’impegno dei paesi sviluppati ad aiutare anche finanziariamente quelli in via di sviluppo. Inoltre anche solo osservare i negoziati che proseguivano strenuamente per settimane, per poi essere prolungati di diverse ore alla spasmodica ricerca di un accordo, è la dimostrazione che quando i paesi del mondo prendono consapevolezza della gravità di un problema le risposte possono arrivare, e che l’impegno alla ricerca di una soluzione può essere davvero comune».

Papa Francesco critica le strategie che puntano all’”internazionalizzazione dei costi ambientali”. Per il Papa, nei Paesi poveri “la priorità è lo sradicamento della miseria”, mentre lo sviluppo di forme meno inquinanti di produzione di energia da parte loro ha bisogno “dell’aiuto dei Paesi che sono cresciuti molto a spese dell’inquinamento attuale del pianeta”. Su questo punto la conferenza di Parigi ha rischiato più volte di naufragare. L’impressione che resta anche dopo la firma dell’accordo è che non si vada molto oltre un atteggiamento assistenzialistico da parte dei Paesi ricchi piuttosto che su una revisione radicale dei rapporti tra nazioni sui temi ambientali. È d’accordo?

«È importante tenere separato quello che sarebbe auspicabile da ciò che è politicamente fattibile. L’accordo a Cop21, come detto, contiene tutta una serie di compromessi al ribasso, ma è cruciale che questi siano stati messi nero su bianco. Il Papa fa bene a insistere sulla necessità di fondare il dialogo tra i popoli su basi che comprendano la moralità e la ricerca di un terreno di condivisione che sia il più ampio possibile. Ma gli impegni finanziari dei paesi sviluppati, almeno sulla carta, sono ingenti, e non dobbiamo dimenticare che proprio questi ultimi sono appena usciti o stanno ancora attraversando uno dei periodi economicamente più difficili della loro storia. È impensabile, in questo contesto, immaginarsi che siano pronti ad aumentare la spesa per aiuti prima di aver fatto quadrare i conti a casa».

L’Enciclica insiste su questo tema chiedendo “un accordo sui regimi di governance per tutta la gamma dei beni comuni”. È un’espressione molto forte, la ritiene praticabile e se sì come?

«Qui l’enciclica tocca un punto scoperto e fondamentale, perché sottolinea la tensione più evidente all’interno del sistema politico internazionale. Tale tensione, di per sé inevitabile, è quella tra gli interessi dei vari stati nazionali e l’ideale universalistico della salvaguardia di quella che Francesco chiama “nostra casa comune”. Studiando a fondo i motivi di contesa e divisione tra gli stati ci accorgiamo che, prima di poter anche solo ipotizzare una reale collaborazione tra i governi e tra i popoli, sono davvero molti i nodi che restano da sciogliere.

Innanzitutto non sempre è facile mettersi d’accordo su cosa e quali siano i beni comuni nel panorama internazionale, che sono poi quelli che i politologi chiamano “beni pubblici”. Se alle difficoltà teoriche e pratiche aggiungiamo le differenze politiche, ideologiche e culturali, resta da capire se restino aperti spazi di collaborazione o se gli interessi di ciascun paese siano inevitabilmente destinati a divergere. Per esempio, che tipo di cooperazione possiamo immaginare sul versante economico, quando tanti paesi del mondo si trovano a un diverso grado di sviluppo, scelgono strategie di crescita divergenti, e sono colpiti da crisi economiche asimmetriche per tempistica e intensità?
Anche quando sembra lampante che questi beni pubblici esistano – come nel caso della lotta al cambiamento climatico, l’assistenza in caso di crisi umanitaria, la lotta al terrorismo –, è spesso difficile trovare la quadra per capire come cooperare».

Ancora più radicale il paragrafo che conclude questa parte del capitolo. Ribadendo un tema già toccato precedentemente, il Papa depreca il fatto che nel XXI secolo si assista ad “una perdita di potere degli Stati nazionali, soprattutto perché la dimensione economico-finanziaria, con caratteri transnazionali, tende a predominare sulla politica”. Papa Francesco chiede perciò “istituzioni internazionali più forti” condividendo la richiesta di Benedetto XVI di “una vera Autorità politica mondiale”. Ogni giorno questo auspicio viene contraddetto dai fatti, si pensi alle difficoltà che incontra il processo diplomatico per la Siria. La sorprende questa richiesta da parte della Chiesa in un contesto in cui in taluni mettono in discussione l’esistenza stessa dell’Onu?

«No, non mi sorprende: è almeno dalla Pacem in terris di Giovanni XXIII nel 1963 che la Chiesa si fa coerentemente portatrice di un messaggio universale di solidarietà e pace, rivolto anche ai non cattolici, e che chiede per questo la creazione di “autorità globali” capaci di gestire le sfide che emergono in un mondo sempre più interconnesso. I processi di globalizzazione estremi di oggi stanno aumentando il numero di problemi che richiedono una risposta su scala planetaria, e dunque legittimano gli appelli di Francesco.

Malgrado il loro fascino, tuttavia, le richieste di “governi globali” si infrangono sulla realtà dei fatti, che ci mette di fronte a un mondo lacerato da divergenze e contraddizioni. È sempre più difficile ricomporre gli interessi politici a livelli così elevati senza annacquarne oltre ogni limite il contenuto. Pensate a quanto tempo impiegano i paesi dell’Eurozona a mettersi d’accordo sulla strada da seguire per tornare a crescere: eppure Italia, Francia e Germania sono molto più simili tra loro di quanto non lo siano Cina, Argentina e Somalia, e il dibattito europeo verte su proposte specifiche, non su “beni comuni” almeno all’apparenza intangibili. È inoltre ancora più difficile immaginare un governo globale in un periodo in cui si moltiplicano le spinte centrifughe, tanto che la stessa opinione pubblica chiede istituzioni più vicine e non più lontane dalla vita di tutti i giorni.

In fin dei conti, lo dice bene il Papa in altre parti di questa enciclica, è una questione di paura e di educazione. Per uscire dalla spirale di incomprensioni e di odio dobbiamo innanzitutto educare alla diversità. E capire che una governance mondiale su questioni globali non deve essere qualcosa che dia risposte univoche e omologanti, ma un punto di partenza indispensabile per rafforzare il dialogo tra gli stati e tra i popoli».

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