11 settembre, il filo
che lega le guerre

Mentre il mondo ricordava con commozione le quasi 3 mila vittime degli attentati compiuti l’11 settembre 2001 negli Usa dai terroristi di Al Qaeda, il segretario di Stato americano Kerry e il ministro degli Esteri russo Lavrov firmavano l’accordo per una tregua in Siria.

Tra i due eventi corrono quindici anni di cambiamenti epocali ma anche un filo rosso robusto e piuttosto evidente. Pochi giorni dopo le stragi delle Torri Gemelle, il 20 settembre, il presidente George W. Bush proclamò la «guerra al terrore» per eliminare il terrorismo e ridurre alla ragione i Paesi che lo sponsorizzavano. Una crociata del bene e del progresso contro le minacce dell’estremismo islamico cui si unirono in fretta decine di altri Paesi. Era l’epoca del «siamo tutti americani».

Gli anni poi trascorsi hanno portato cambiamenti epocali e drammatici. L’infinita guerra in Afghanistan: l’abbiamo attaccato e occupato nel 2001 per cacciare i talebani e disperdere Al Qaeda, ma nel primo semestre del 2016 il Paese ha registrato il record di vittime civili dopo il 2009, con 1.601 persone uccise (tra le quali 388 bambini e 5.007 donne). Il massacro in Iraq: Bush e Blair vollero a tutti i costi una guerra e ne inventarono le ragioni. Oggi, centinaia di migliaia di morti dopo, il Paese non è affatto pacificato. Anzi: per una parte importante è ancora occupato dai miliziani dell’Isis, che l’hanno disseminato di fosse comuni.

In questi quindici anni, inoltre, non è stata risolta alcuna delle molte ambiguità che legano l’Occidente, gli Usa per primi, ai Paesi del Golfo Persico che sono noti per essere i primi finanziatori e sostenitori dell’estremismo islamico e del terrorismo che ne è emanazione. Possiamo davvero credere di farla finita coi terroristi se continuiamo a fare affari e scambiarci omaggi con i loro padroni?

Subito dopo l’11 settembre, per essere più precisi dopo l’attacco all’Afghanistan, una sola nazione venne esclusa, almeno in termini morali, dalla grande coalizione internazionale: la Russia. Il Cremlino era contrario all’invasione dell’Iraq, e questo fu ritenuto un peccato grave dagli Usa e dai loro corifei. Ma soprattutto, la Russia chiedeva che fosse riconosciuto un fatto a posteriori inoppugnabile: essere stato il primo Paese europeo a subire un jihad (guerra santa islamista) con la seconda guerra di Cecenia cominciata nel 1999, dove i denari del Golfo e i relativi miliziani (molti qaedisti reduci dall’Afghanistan) erano intervenuti pesantemente.

Gli Usa negarono sempre quella realtà e continuarono a parlare di «indipendentisti» ceceni anche quando le modalità degli attentati (primo fra tutti il massacro nelle scuole di Beslan nel 2004, ma poi anche lo stillicidio di attentati kamikaze nel Caucaso) parlavano chiaramente di terrorismo islamico. Così come parlava chiaro la proclamazione del califfato del Caucaso, arrivata anni prima della nascita dell’Isis e del suo califfato.

Ecco. Con l’accordo siglato tra Kerry e Lavrov si chiude per sempre la stagione post-11 settembre, con tutte i suoi errori e le sue ipocrisie. La «war on terror» è stata un clamoroso fallimento: basta pensare che dal 2000 al 2016 i morti per atti di terrorismo, nel mondo, non sono calati ma, al contrario, cresciuti di nove volte. E l’idea che si potesse radunare una coalizione del bene per lottare contro il male è stata dispersa da quella gran porcheria che fu la guerra contro l’Iraq di Saddam Hussein.

Oggi gli Usa dell’impalpabile Obama sono costretti ad accettare realtà che quindici anni fa, nel tripudio neo-con e nell’isteria dello «scontro di civiltà», non avrebbero nemmeno considerato. E cioè, che la guerra al terrorismo non si fa con i «buoni», con i Paesi almeno in apparenza azzimati e pulitini ma con chi ci sta. Nel caso, anche con la Russia del detestato Vladimir Putin. Che la strategia di «esportazione della democrazia», varata subito dopo il crollo del Muro di Berlino, in certe regioni del mondo contribuisce soprattutto a far rimpiangere i dittatori, come puntualmente avviene oggi in Iraq e in Siria e come è già avvenuto in Egitto e nello Yemen. Che sovvertire certi equilibri senza avere la minima idea di come sostituirli spalanca le porte a incubi peggiori e galvanizza gli apprendisti stregoni: le recenti pretese di Arabia Saudita e Turchia sono lì a dimostrarlo.

Firmando l’accordo, insomma, Lavrov e Kerry hanno chiuso un’epoca. Quella che ora si apre non è meno complicata e pericolosa ma è certamente nuova. Il primo esperimento, il funzionamento della tregua e l’avvio di una trattativa politica, si svolge sulla pelle dei siriani. Basterebbero le loro sofferenze, con cinque anni di guerra civile e quasi 300 mila morti, a farci sperare con tutte le forze che l’epoca nuova sia anche un’epoca migliore.

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