Associazione d’impresa
basta monotonia

Se è vero che tre indizi fanno una prova, una riflessione sul presente e futuro dell’associazionismo d’impresa è necessaria. Prima ha cominciato Marchionne, con il clamoroso strappo da Confindustria della Fiat, poi, è storia di questi giorni, altrettanto hanno fatto Unipol-Sai da Ania, che associa gli assicuratori, e Salini da Ance, il potente raggruppamento dei costruttori; anche le grandi aziende pubbliche di Confindustria, anni fa ansiose di entrarvi, ora paiono intenzionate ad andarsene (forse con la benedizione di Renzi). Non si tratta di una scissione dei leader per fare un club esclusivo. Semplicemente, si sentono fuori posto in una compagnia troppo variegata. E il disagio si somma a quello opposto dei piccoli o semplicemente di quelli che hanno priorità diverse.

Dunque, non è solo Renzi a trattare con sufficienza i vertici associativi (e sindacali), andando ostentatamente soltanto in periferia: a Nembro e non all’Eur. Il malessere è evidente tra i «padroni» di ogni settore, il contributo associativo appare ingiustificato, i servizi forniti sono inutili per i grandi, inaccessibili per i piccoli. Va in crisi quello che, nell’Italia del «particulare» era il miracolo dell’intesa su valori generali ma alti (la cultura d’impresa, la libertà economica) ma anche della solidarietà sulle cose ordinarie. Lo facilitavano residui di comodità corporative, lo giustificavano il confronto con un Sindacato molto forte, e relazioni con una politica sensibile al peso elettorale delle categorie. Era la democrazia dello scambio, non necessariamente illecito, su cui un sistema si reggeva, e di cui lo stesso consociativismo tra maggioranza e opposizione si nutriva. Oggi, sono ben lontani i tempi della Coldiretti che si faceva partito nel partito e dei parlamentari portatori di interessi mirati, quasi di un incarico.

A seguito di un sistema elettorale che ha tradito (come si doveva prevedere), le illusioni della rivoluzione referendaria del 1993, il legame non è con i ceti e tanto meno con i territori; è solo con i danti causa partitici (proprio ora che i partiti sono debolissimi).

Sembrano naufragare anche atti di lungimiranza come la costituzione di raggruppamenti formati da settori e persino riferimenti ideali diversi, perché è sempre più difficile la mediazione interna.

A Bergamo, l’associazionismo è talmente radicato per una tradizione che viene dai Sestini, dai Mazzoleni, dagli Agazzi, dai Rodeschini, che il fenomeno non è ancora così evidente, ma nell’economia della globalizzazione, tra soci della stessa associazione, ci possono essere differenze incolmabili. La linea di demarcazione passa tra chi esporta e chi dipende dalle commesse pubbliche, tra chi è interessato e chi è indifferente all’art.18. Tra il commercio on line e quello off line, per esempio, la convivenza è più difficile che un tempo tra i piccoli e la grande distribuzione (anch’essa uscita da Confcommercio).

Di fronte a questo panorama, sarebbe però sbagliato smontare tutto. I corpi intermedi hanno un grande valore per il funzionamento stesso di una democrazia (rileggiamo Tocqueville…), e dobbiamo temerne l’eclisse, perché la democrazia diretta è solo populismo.

Così come il sindacato deve tornare in fabbrica e trattare caso per caso, lasciando a livello nazionale solo i grandi temi (i diritti, gli standard minimi, la politica), anche per le imprese occorrerà probabilmente distinguere due livelli: cercare il massimo comune denominatore soprattutto delle filiere, fare progetti di territorio, e lasciare a Roma l’interlocuzione con il Governo e l’Europa.

E allora strutture leggerissime e professionali sia in alto che in basso, nei comparti, nelle reti, nelle mille realtà di un’economia che è diversa tra capannoni confinanti, cercando solo le esigenze simili ben al di là dei confini burocratici tradizionali.

Una bella sfida per un associazionismo maturo, perchè l’ognuno per sé non va lontano. Certo anche le presidenze alla Squinzi, discorsi monotoni da leggere, ed equilibrismi pro e contro i governi, sono le ultime di un’era che sta chiudendosi. Renzi ha tolto un pezzo di Irap alle imprese e ha dato 80 euro ai lavoratori, ma non perché qualcuno ha lottato per questo.

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