Atenei, mille difetti
ma sanno educare

Tanto vale dirlo subito. Malgrado il clamore che sta suscitando e susciterà, il Rapporto Ocse, nella parte in cui analizza il sistema dell’istruzione in Italia, non rivela nulla che non si sapesse già. Offre comunque ben poche novità per chi ogni giorno si occupa della scuola e dell’università e si prodiga per migliorarne la qualità. Questo, ovviamente, non significa che bisogna negare le criticità messe in evidenza, anzi si spera che l’autorevole parere di un ente esterno, quale è appunto l’Ocse, aiuti a porre finalmente tra i punti prioritari dell’agenda politica del nostro Paese l’istruzione e la conseguente gestione delle competenze.

È bene però essere un po’ più precisi e leggere i dati prestando una maggiore attenzione alle specificità dei singoli Paesi europei. Il primo dato, quello che forse balza subito agli occhi, è che «solo il 20% degli italiani tra i 25 e i 34 anni è laureato rispetto alla media Ocse del 30%». Ora, a parte qualche non trascurabile incoerenza, nel rapporto per esempio c’è un diagramma che mostra che la media dei laureati italiani nel 2016, sempre nella stessa fascia d’età, è del 25,6% (non molto lontana quindi da quella europea), ciò che da tale rapporto non emerge è che negli ultimi vent’anni in Italia abbiamo avuto una straordinaria crescita di laureati. In ogni caso, prendendo per buoni i dati Ocse, quali sono le ragioni del mancato allineamento con gli altri Paesi europei?

Una prima ipotesi, di tipo antropologico, ma francamente poco realistica, potrebbe essere che gli italiani non vogliano istruirsi. La seconda, invece, di tipo razionale, potrebbe essere che gli italiani sappiano che una laurea non cambierebbe le loro opportunità di lavoro, perché il sistema industriale non è interessato a profili altamente qualificati. Questa seconda ipotesi sembra concordare con l’analisi del rapporto Ocse, che evidenzia infatti che i lavoratori hanno spesso competenze superiori rispetto a quelle richieste dalle mansioni che svolgono. E quindi perché mai fare così tanta fatica per seguire un corso di studi universitari, impegnare le proprie famiglie nel sostegno economico, quando alla fine c’è una bassa domanda di competenze?

Anche qui, è innegabile che purtroppo esiste una distanza preoccupante tra università e sistema imprenditoriale. E certamente l’università deve fare di più per trasformare le conoscenze acquisite durante il corso degli studi in competenze adeguate alle richieste del mondo del lavoro. Occorre però che ognuno degli attori in campo, università e imprese, faccia la propria parte.

Per quanto riguarda l’università, non è certo difficile indicare i punti deboli: la rigidità dei settori scientifico-disciplinari, che sono alla base della progettazione dei corsi di laurea; la difficoltà a sviluppare progetti multidisciplinari; i vincoli normativi che rallentano ogni processo di aggiornamento dei percorsi di studio; la fatica in alcuni casi nel riuscire a progettare insieme al mercato del lavoro i percorsi di formazione. Questi sono alcuni dei fattori, se ne potrebbero aggiungere altri, che spesso ostacolano la capacità di ottenere formazione di alto livello in grado di rispondere alle domanda di competenze del mercato odierno.

Tutto vero. Lo è altrettanto però che se il livello delle università italiane, complessivamente, non fosse di alto livello, non si spiegherebbe il fenomeno della fuga dei cervelli. Ho detto complessivamente perché è innegabile che il sistema scolastico-universitario italiano è purtroppo dicotomico. Esistono cioè scuole e università di una parte del nostro Paese che non hanno nulla da invidiare a quelle europee e extra-europee, e scuole e università di un’altra parte del Paese che devono invece migliorare la loro offerta formativa. Ed è proprio su questa preoccupante e crescente lacerazione del sistema scolastico-universitario che bisogna concentrarsi. Un compito che coinvolge la società tutta, ma molto di più chi ha responsabilità e potere decisionale. E c’è soltanto un modo per farlo: investire nell’educazione di ogni ordine e grado, e iniettare quella fiducia indispensabile sia per risolvere i problemi che sono sotto gli occhi di tutti, ed evidenziati anche dal rapporto Ocse, sia soprattutto per avere anche uno sguardo più lungimirante.

Ho detto all’inizio che il rapporto Ocse non rivela niente di nuovo, quanto meno in merito alle criticità del nostro sistema scolastico-universitario e alle sue ricadute sul mondo del lavoro. Ma non rivela soprattutto l’aspetto più significativo, vale a dire che, malgrado i difetti, malgrado tutto, il sistema scolastico-universitario italiano, come ha scritto qualche giorno fa Carlo Rovelli, «custodisce competenze uniche, che non esistono altrove, e continua a educare una delle popolazioni più colte, intellettualmente brillanti e vivaci del pianeta».

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