Bauman l’umile
traghettatore

Ci mancherà Zygmunt Bauman, il grande sociologo polacco morto ieri a 91 anni. Definirlo «sociologo» in realtà è fargli un torto. Definiva il suo mestiere in modi poco «ortodossi». «Un sociologo degno di questo nome - spiegava - parla con la “gente”, legge romanzi, guarda la televisione e non si limita a teorizzare insieme ai suoi colleghi».

In sostanza un sociologo vero non si mette sopra, non si tira fuori dalle situazioni che analizza, ma sta dentro, parla e scrive sentendo di condividere lo stesso destino delle persone e della società di cui si occupa. Ci mancherà quindi Bauman per questo suo modo davvero unico di raccontare quello che siamo, di scavare dentro le mode di cui tutti siamo vittime, dentro le nostre abitudini senza mai mostrare la saccenza del professore. Quando lo si leggeva (e lo si continuerà a leggere) ci si sentiva sempre provocati, a volte messi in crisi, mai messi sotto processo. Perché lo sguardo di Bauman era sempre mosso da un’ istintiva simpatia verso i suoi simili. Anche quando ribattezzava categorie che ormai sono diventate una vulgata, come la celebre categoria della «società liquida», non lo faceva per bollare una deriva culturale e sociale di cui tutti siamo vittime. Lo faceva con la convinzione che non c’ è condizione umana che insieme alle insidie non presenti delle opportunità. E quindi anche la condizione di uomini «liquidi», senza radici, instabili nei rapporti, dalle fragili convinzioni, poteva aprire orizzonti esperienziali inediti.

Lui sentiva la sua funzione come quella di un traghettatore, che aveva a cuore il destino delle persone che erano «materia» dei suoi studi. Ma scrivendo i libri, così profondi e sempre così limpidi, voleva che tutti ci trasformassimo in traghettatori. Perché, spiegava, il compito che ci attende è quello di «recuperare nuove potenzialità umane dall’ oscurità in cui erano sprofondate e allargare in questo modo il regno della libertà umana». Ci mancherà Bauman per questo suo modo sempre «costruttivo» di concepire il proprio ruolo di intellettuale. Non toccava mai una delle grandi questioni del nostro tempo, dalla solitudine delle persone al dramma dei migranti, senza offrire la possibilità di un percorso. Senza suggerire alle persone un modo per andare oltre la trappola delle contrapposizioni verbali. Una volta, ad esempio, chiamato a parlare della mercificazione a cui è stato ridotto l’ amore nella nostra società, aveva concluso così: «L’ amore non è un oggetto preconfezionato e pronto per l’ uso. È affidato alle nostre cure, ha bisogno di un impegno costante, di essere ri-generato, ri-creato e resuscitato ogni giorno.

Mi creda, l’ amore ripaga quest’ attenzione meravigliosamente. Per quanto mi riguarda posso dire: come il vino, il sapore del nostro amore è migliorato negli anni». Ci mancherà Bauman anche per un’ altra caratteristica assolutamente rara negli intellettuali e ancor più rara negli intellettuali di successo: l’ umiltà. Qualche tempo fa aveva preso in contropiede un intervistatore che gli chiedeva quali domande avrebbe posto a Papa Bergoglio: «Papa Francesco non ha bisogno delle mie domande. Ogni giorno egli se ne esce con risposte a domande che io sto ancora cercando, e con successo a metà, di articolare». E sempre riguardo al Papa confessava che lo colpiva per quella «sua empatia per l’ umana fragilità». Se oggi in Bauman riconosciamo un intellettuale amico e alleato delle nostre vite è proprio perché anche lui è sempre stato capace di una simile empatia.

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