Cambiamo la scuola
e puntiamo sul campus

Dal 9 giugno fin oltre il 10 settembre otto milioni di alunni sono in vacanza. I docenti restano in servizio fino al 31 luglio e rientrano al 1° settembre. A norma degli articoli Art. 13, 19, 105 del contratto nazionale del 2007 ai docenti a tempo indeterminato spettano 32 giorni, che possono arrivare fino a 36.

Restano in servizio, ma le scuole sono vuote. Per le famiglie incomincia una via crucis di tre mesi. Oratori, campus estivi, summer schools, campi scout, enti locali fungono da cirenei temporanei, spesso assai costosi, da 50 fino a 400 euro alla settimana. Da moltiplicare per il numero dei figli. I nonni e gli zii sono gratis. Averne! Quando non ci sono i campus, i ragazzi sono soli, in casa o per strada. I genitori dispongono di sole tre settimane di ferie. La scuola sospende il Welfare educativo e assistenziale dai primi di giugno e lo riapre a settembre. La vita sociale, il lavoro, la famiglia sono cambiati, ma il calendario scolastico è ancora quello dell’Italia contadina. Se non stavi a scuola, lavoravi nei campi.

La scuola non è al servizio delle famiglie, ma queste sono una variabile dipendente di una scansione temporale preistorica. Ciò che colpisce è il silenzio degli strenui difensori politici e sindacali del carattere statale della scuola, i quali, mentre contestano il carattere pubblico delle scuole paritarie, restano indifferenti al fenomeno della privatizzazione forzata e parallela di quasi tre mesi del tempo-scuola statale. Si tratta di una tassa occulta per tutte le famiglie, che alimenta un business crescente e che sottrae tempo di lavoro e reddito.

Allora, che facciamo? Prolunghiamo l’apertura delle scuole fino al 31 luglio e riapriamo il 1° settembre? La risposta a questa domanda è no secco! Una scuola fatta come ora rischierebbe di diventare ulteriormente insopportabile per studenti e insegnanti.

Si tratta, viceversa, di ripensare l’intera organizzazione del tempo-scuola e del tempo-lezione in relazione alle domande educative e culturali dei ragazzi.

Detto in sintesi: occorre passare dalla scuola come «santuario del sapere» al «campus educativo». Che cos’è? È un luogo dove i ragazzi «vivono», nel senso che l’acquisizione dei fondamentali saperi di civiltà, l’educazione alle relazioni affettive e sociali, l’esercizio della libertà e della responsabilità verso il mondo sono intrecciati e sincronici.

Non è un separato dal tempo-di-vita reale. È un posto dove «si esiste». Per i ragazzi tempo-di-vita e tempo-scuola coincidono. Le lezioni diventano attività di laboratorio, la rigida partizione in classi di età salta, le materie e le ore/lezione sono ridotte di numero, la personalizzazione dei percorsi e la tutorship verso ogni ragazzo è la regola.

In Italia, deteniamo il record annuale di ore-lezione annue: 1.100, mentre la media europea è 800, secondo i dati Ocse. Nel campus si studia, si mangia, si fa sport, ci si diverte, si cresce insieme, ragazzi, docenti e persino i genitori, se possono e se vogliono.

Non è un mondo artificiale a parte, è un fermento sociale e culturale attivo sul territorio. Un posto, dove i docenti fanno un lavoro intellettuale e educativo, senza la rigida partizione oraria giornaliera, settimanale, mensile della fabbrica fordista o degli uffici dell’Inps.

Una scuola così organizzata può benissimo restare a disposizione delle famiglie e dei ragazzi 5 giorni alla settimana, dalle 7 alle 19, tutto l’anno, eccetto il mese di agosto. Un’utopia? Basta dare uno sguardo oltralpe o oltreoceano per cogliere l’estremo realismo della proposta e i risparmi conseguenti.

E, per quanto sembri strano, ci sono oratori parrocchiali nel nostro territorio che – ovviamente solo al pomeriggio – praticano già questo modello: dopo-scuola, laboratori artigiani, partecipazione delle famiglie.

L’attuale sistema scolastico pare organizzato per far soffrire i ragazzi e i loro insegnanti. Solo che la Bibbia ha scritto: «partorirai nel dolore», non ha affatto prescritto «conoscerai nel dolore».

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