Campagna elettorale
Tutti i giochi sono fatti

La denuncia dell’ex vice presidente americano, Biden, delle ombre russe sulla campagna del referendum costituzionale di un anno fa va presa con le pinze, così come andrà valutato l’impatto sull’opinione pubblica italiana della ripresa del secolare conflitto arabo-israeliano. Il primo è un tema scivoloso, coerente con la manipolazione indotta dalla post-verità, che da qui al voto riserverà altre sorprese fra colpi ad effetto e colpi bassi. Il secondo è una questione che da sempre divide le due sinistre. Tutto questo conferma che le elezioni non sono più solo «nazionali», che c’è una continuità con le tensioni attorno a noi, specie per un Paese come l’Italia: uscito dalla condizione di sorvegliato speciale, ma pur sempre sulla faglia mediterranea.

Lo si vede bene anche dall’ultimo sondaggio Ipsos che dà in frenata la Lega, che per il momento non può cavalcare l’onda dei profughi a tutto vantaggio dell’intramontabile Berlusconi. L’ex premier, senza fare più di tanto, ha preso il volo sotto l’ombrello rassicurante del Partito popolare europeo, mentre la cura Minniti, comunque la si voglia giudicare, sta depotenziando la ruvidezza di Salvini.

Il condizionamento estero si coglie pure dalle capriole all’indietro del grillino Di Maio in via di accreditamento internazionale: l’Europa, per l’aspirante premier, può essere addirittura parte della soluzione dei nostri guai. Peccato che i vincoli europei vengano ricordati solo dopo che chi ha provato a rispettarli s’è scottato sul piano del consenso e in una fase in cui la dottrina ideologica dell’austerità sembra aver fatto il suo tempo, grazie ad un europeismo critico ma responsabile.

Quasi tutti i giochi sono fatti e i problemi maggiori si accumulano in casa Pd. Al suo capezzale sono rimasti i padri nobili e il partito può contare su individualità mature: da Gentiloni a Franceschini, da Minniti all’esterno Calenda. Tuttavia l’uscita di scena di Pisapia ha avuto un effetto spiazzante su una formazione friabile. Da qui all’isolamento ce ne corre, comunque il rischio esiste in una campagna che sarà velenosa, una resa dei conti per ridisegnare i confini del centrosinistra e i rapporti di forza tra le due sinistre. Il progetto di Campo progressista era quello di occupare la terra di mezzo fra i democratici e gli scissionisti: un cuscinetto a far da ammortizzatore e, insieme, creare una concorrenza al cartello D’Alema-Grasso-Bersani. Il contributo di Pisapia era comunque evocativo di un’immagine, di un centrosinistra allargato, più che di una consistente forza elettorale. L’ex sindaco è parso più un leader riluttante che un leader politico. C’è chi vede in questo flop un segno di chiarezza e chi invece un cupo presagio, mentre Renzi non sembra turbato più di tanto contando su quel che resta della propria immagine e della forza del partito. Punta sul «voto utile» contro i populisti, dove è già in campo il Berlusconi ultima maniera. L’obiettivo, tutto in salita, è tenere a sinistra (con socialisti, verdi e radicali) e prendere un po’ di voti moderati con la lista centrista.

Qui, dopo l’abbandono di Alfano, bisogna vedere se il partito regge o meno. L’universo centrista non va snobbato: pur fatto di piccoli numeri e di molti generali, ha un potere di coalizione elevato e la nuova legge elettorale rende prezioso il sostegno dei gruppi minori. La scomposizione del centrosinistra, all’insegna dell’insuperabile contrasto frontale con il nemico interno, indebolisce una democrazia competitiva e governante. Sarà una dura prova anche per la Cosa rossa che punta a superare la soglia del 10% e sulla sconfitta di Renzi. Ma dovrà anche dimostrare, fra nostalgia e voglia di rivincita, di non essere un residuo tardo novecentesco, prigioniera di un progetto d’interdizione.

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