Caso Fiat, se l’Italia
è terreno di caccia

Dal 2004 ad oggi Sergio Marchionne ha portato la Fiat di Gianni e Umberto Agnelli dalla bancarotta alla salvezza e poi al successo imprenditoriale. Il prezzo da pagare è stato alto. Sono 260 mila gli addetti strettamente legati alla produzione in Italia. Ma i cervelli pensanti sono tutti nella sede di Fiat Chrysler a Auburn Hills nel Michigan. La sede legale è a Amsterdam, quella fiscale a Londra. Di italiano è rimasto il nome Fiat e poco più. Torino è stata declassata da capitale del regno dell’auto a semplice luogo di assemblaggio. Questo non vuol dire che per l’Italia Fca sia diventata marginale.

Il settore automobilistico pesa sul Pil tra il 5% e 6%. Il 10% della ricerca nazionale viene dall’automotive, 2.500 sono le imprese della componentistica per un totale complessivo di 1,2 milioni di addetti. Per chi, come l’Italia, ha tradizioni consolidate nella produzione, nello stile, nelle corse l’auto è più che un settore merceologico, è parte dell’identità industriale del Paese ed è quindi strategico. Crescono le voci dell’interesse di alcuni gruppi cinesi per il gruppo Fiat Chrysler.

Da tempo Marchionne cerca un partner per poter raggiungere quelle economie di scala che solo i grandi numeri sono in grado di garantire. I tentativi di giungere ad accordi a livello europeo sono falliti. Se alla Fiat fosse riuscito nel 2009 con Opel il colpo messo a segno con Chrysler non saremmo qui a parlare di cinesi. Ma i tedeschi si opposero con veemenza senza distinzione di partito e sindacato. Marchionne e Fiat erano indesiderati. Punto e basta. Andavano bene sinanco i russi di Sberbank, una banca sull’orlo del fallimento, ma protetta da Putin. Ecco un’altra vicenda dove la politica italiana avrebbe potuto far proprio l’interesse di un’azienda strategica e difenderne i progetti industriali. La fusione con Opel aveva senso compiuto e avrebbe costituito il primo esempio di gruppo europeo integrato senza connotazione nazionale specifica. Il valore politico dell’iniziativa superava di gran lunga la pur meritoria azione imprenditoriale. Ma a Berlino gli italiani hanno un valore solo quando si va a mangiare in pizzeria. Un governo con il senso della dignità nazionale avrebbe puntato i piedi e se del caso battuto i pugni sul tavolo. In nome dell’Europa. Ma in Italia erano in imbarazzo. L’interesse di un’azienda a volte coincide con quello nazionale. La recente vicenda Fincantieri in Francia è lì a dimostrarlo. Per l’Italia esterofila un concetto difficile da veicolare. Così Berlino tuonò e Roma tacque. Fu allora che Marchionne volò liberamente da Obama. Per la politica industriale italiana è un punto di svolta. Da allora in Europa si è capito che l’Italia è terreno di caccia. Gli italiani non sono capaci di difendere le loro aziende leader. La Peugeot-Citroen si è presa in questi giorni Opel con l’appoggio dello Stato. Solo pochi anni fa era sull’orlo della bancarotta, la salvarono i capitali cinesi. Parigi pose però dei paletti: niente maggioranza e sostegno attivo dello Stato francese . Con il portoghese Carlos Tavares alla presidenza l’azienda si è ripresa e adesso con Opel è il secondo gruppo automobilistico in Europa dopo Volkswagen. La lezione francese è tutta qui. I transalpini difendono in patria e attaccano all’estero. Si stanno spartendo l’Italia con i tedeschi.

Banche, assicurazioni, catene di distribuzione alimentare, lusso sono preda dei vari marchi transalpini sino a Vincent Bolloré in Telecom Italia, in Mediaset oltre che in Mediobanca. Ai tedeschi basta la filiera produttiva per le grandi case automobilistiche. Se adesso anche per quel poco che resta di Fiat si dà via libera ai cinesi, il gioco è fatto. L’Italia doveva essere un prim’attore nella costruzione della nuova Europa. È diventata una colonia.

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