C’è metodo nella follia
della Corea del Nord

Quando si parla della Corea del Nord e del suo leader, Kim Jong-Un, si vira con facilità verso un linguaggio di tipo clinico-sanitario. Follia, fobie, paranoia, patologia, complottismo, ecco alcune delle parole più usate per bollare le azioni del vertice nordcoreano. Sempre che non si vada dritti sul termine globale e risolutivo: pazzia. D’altra parte la tentazione è forte. Non è da pazzi avere uno dei regimi più chiusi e centralizzati per ritrovarsi agli ultimi posti del mondo (213° su 230) per ricchezza pro-capite? Che senso ha un servizio militare obbligatorio di 10 anni per i maschi e 6 per le donne a partire dai 17 anni d’età?

Perché tormentare la popolazione con le carestie e spendere somme enormi per avere la bomba atomica? Per non dire degli ultimi sviluppi: Kim Jong-Un, in sei anni di presidenza, ha lanciato 80 missili, di cui 18 nella prima metà del 2017, minacciando il Giappone che non solo è ipersensibile al tema dell’attacco nucleare (e chi potrebbe dargli torto) ma vive a sua volta, con il premier Shinzo Abe, una stagione politica di riarmo politico e militare, con sei anni consecutivi di aumenti per il budget della Difesa.

Eppure c’è del metodo in questa follia nordcoreana. E una volta tanto converrebbe analizzare gli elementi razionali di una crisi che ci ha portati sull’orlo di una nuova guerra, che molti temono atomica. Tanto per cominciare, è chiaro che Kim Jong-Un scommette sul fatto che la guerra non ci sarà. Lui sa che la Corea del Nord verrebbe spazzata via dalla macchina bellica americana. Ma i generali di Trump a loro volta sanno che, nel frattempo, la Corea del Sud patirebbe crudeli rappresaglie per le quali non ci sarebbe nemmeno bisogno della bomba atomica, basterebbe l’artiglieria convenzionale. Americani e giapponesi non possono permettere che questo accada. Mentre l’enfasi nordcoreana sul nucleare esprime, più che il desiderio di arrivare allo scontro, la volontà di evitarlo. Kim Jong-Un ha in mente gli esempi dell’Iraq di Saddam Hussein e della Libia di Muhammar Gheddafi, spazzati via proprio perché NON avevano la bomba. L’Iran perseguiva lo stesso tipo di protezione anti-Usa e, proprio perché era sulla buona strada e aveva alleati importanti, è riuscito a strappare un buon accordo con Usa, Russia, Europa e Onu.

Quindi: nel mare tumultuoso e pieno di squali della politica internazionale, la bomba serve. Serve però non solo a tenere a bada i «nemici» ma anche a soddisfare gli «amici». La Corea del Nord mobilita sotto le insegne dell’Armata del Popolo quasi 2,5 milioni di uomini e donne, cioè il 10% circa della popolazione. Ai quali vanno aggiunti i 4 milioni della Guardia Rossa dei Lavoratori e dei Contadini, la riserva. Da molti anni, è uno dei primi cinque Paesi al mondo per numero di soldati. È un apparato mostruoso che, come succedeva in altri regimi (per esempio, quello sovietico), non serve solo alla difesa (dall’esterno) e al controllo (dell’interno) ma è pure un volano di sviluppo sociale. Vuol dire impieghi, salari, alloggi, famiglie sfamate e sistemate. Vuol dire, quindi, anche consenso. A patto, però, di continuare a investire senza mollare la presa. Ecco quindi la necessità di espandere l’armamento, costruire nuovi missili, immaginare pericoli più pressanti per avere bombe più potenti. Con la corsa al nucleare, il regime esprime soprattutto la volontà di conservare la stabilità interna e, dunque, di conservare se stesso.

Per dare un futuro alla dinastia di famiglia (suo nonno, Kim Il-Sung, fondò la Repubblica Popolare Democratica di Corea nel 1948), avendo un’economia in stato comatoso e forze armate pletoriche e costose, Kim Jong-Un ha anche bisogno di amici forti e fedeli. Il primo fra questi è la Cina, che da decenni sostiene con ogni mezzo la Corea del Nord e di fatto la tiene in vita. Oggi, mentre afferma le proprie ragioni in modo sempre più assertivo sulla scena internazionale e attua una politica di forte espansione in Africa, Europa e nel Mar Cinese meridionale (da dove passa un terzo del traffico commerciale marittimo del globo), la Cina di tutto avrebbe bisogno tranne che di un vento di guerra sulla soglia di casa. Proprio per questo, invece, Kim Jong-Un fa montare la tensione. Perché la Cina si preoccupi e, per disinnescare la crisi, corra al suo soccorso, mediando con gli Usa e inviando alla Corea del Nord aiuti sempre più corposi. Che è esattamente ciò che sta avvenendo. Perché c’è una logica in questa follia.

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