Certi cattivi maestri
stanno proprio a scuola

Il Rapporto 2015 dell’Istituto nazionale di valutazione del sistema di istruzione (Invalsi) relativo ai risultati dei test di valutazione degli apprendimenti torna a documentare un divario molto grande tra il Nord - al di sopra della media Ocse - e il Centro-Sud, al livello dei Paesi che una volta si definivano «Terzo mondo» e oggi «in via di sviluppo».

Se ci limitiamo alla condizione del sistema scolastico, il Sud dell’Italia appare, in realtà, «in via di sottosviluppo». La conferma più clamorosa non viene dal basso livello di prestazioni didattiche, bensì dal rifiuto di sottoporsi ai test di verifica delle stesse. Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia, Sardegna hanno tassi altissimi di rifiuto delle prove: due licei su tre; in Sicilia nove istituti tecnici su dieci. Nel Lazio, il 70% dei professionali. Sanno di essere i peggiori, ma non vogliono che il Paese se ne accorga. Le autogiustificazioni? Una «ideologica»: valutare significa ridurre la scuola pubblica ad azienda privata; la seconda più contingente: rifiutare le prove come protesta contro il ddl «La Buona scuola».

Si devono notare almeno due gravi contraddizioni. La prima: coloro che fanno scioperi per difendere eroicamente la scuola pubblica contro il liberismo privatista sono gli stessi che contribuiscono ad affondarla, rifiutandosi persino la fotografia delle evidenti lacune o compilando i test al posto dei loro alunni. La seconda appare particolarmente drammatica al Sud: coloro che fanno del carattere statale-pubblico delle scuole un baluardo etico e culturale contro il familismo amorale, contro i sistemi mafioso-clientelari, contro la violazione delle regole elementari della convivenza civile e delle leggi dello Stato, sono gli stessi che nelle scuole hanno praticato spudoratamente la furbizia, rifiutato di rendere conto dei propri atti, considerato lo Stato come un nemico.

È questa cultura, questa mala-educazione, che i comportamenti pratici delle istituzioni scolastiche, dei loro dirigenti, dei loro insegnanti, dei loro funzionari amministrativi, dei loro sindacati hanno diffuso a piene mani tra le giovani generazioni. Non è forse questo il terreno di coltura della mentalità mafiosa? Nell’eterno dibattito sulla questione meridionale non mancano coloro che sostengono che questa mentalità anti civica, anti Stato e anti sistema non si può sradicare, perché è una costante antropologica millenaria. Esponenti «illuministi» del fatalismo meridionale si sono spesso associati a questa tesi, che nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa ha trovato la sua formulazione letteraria più felice. È ora, invece, di riconoscere che i meccanismi della riproduzione sociale di questa cultura non sono innescati da un Fato millenario senza volto, bensì dalle generazioni adulte, qui e ora, che stanno nella famiglia e nelle scuole. Le scuole sono state «cattive maestre», benché abbiano speso migliaia di euro e di parole di insopportabile retorica per l’educazione alla legalità.

Che fare? Poiché sia il Sudexit sia il Nordexit sono opzioni suicide per l’Italia , occorre formalizzare in termini inequivoci sul piano culturale, programmatico e legislativo-amministrativo che la valutazione esterna e l’autovalutazione delle scuole sono parte costitutiva dell’offerta educativa e didattica. Chi non fa lezione, chi non valuta, chi non si fa valutare viene meno alla propria deontologia professionale e deve essere sanzionato. Il preside incapace di far rispettare la legge e gli insegnanti inadempienti devono essere licenziati per giusta causa. La politica e i ministri devono decidere se stare dalla parte dei funzionari infedeli e dei loro sindacati corporativi, per qualche miserabile voto di scambio, o dalla parte dei nostri figli

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