Chi può aiutare
perdenti e falliti

Ci vuole del coraggio per impugnare la penna e scrivere la lettera che Fabio ha inviato al nostro giornale qualche giorno fa. Fabio è un nostro lettore cinquantunenne, ex direttore di uno stabilimento di 120 persone oggi disoccupato. E disperato.

Perché, come egli stesso confessa nella lettera, si sente in «caduta libera», perché, da dicembre ad oggi, ha inviato non meno di duecento curriculum e il risultato è stato nullo, uno «zero totale». Ci vuole coraggio per impugnare la penna quando si è nelle condizioni di Fabio perché, in quella giungla crudele che è il mondo dominato dall’ideologia del successo individuale, Fabio è un «fallito», è uno che non ce l’ha fatta, un perdente. E tanta parte della cultura egemone nel nostro tempo massacra i perdenti, li butta senza pietà nel tritacarne della colpa, surrogato morale contemporaneo dell’antica idea di peccato. Ne fa materiale di scarto.

E per giunta li colpevolizza. Quante volte sarà venuto in mente a Fabio, nelle infinite riflessioni, nei mille tormentati ripensamenti di questi mesi per lui così tragici, la sequenza di tutti i gesti, gli atti, le parole, gli incontri di un’intera vita professionale. Alla ricerca dell’errore, di quel che avrebbe potuto fare e non ha fatto, di quell’azione che casomai, chissà, l’avrebbe condotto lontano dalla situazione di oggi. La mente dominata dal rimpianto o addirittura dal rimorso per scelte rivelatesi poi drammaticamente sbagliate. E con la preoccupazione delle bollette da pagare, dei figli da sfamare. E di una reputazione morale da difendere.

Perché nello sguardo del vicino di casa che lo vede aggirarsi in paese nelle ore diurne, nelle quali sono tutti a lavorare, c’è tanto spesso quella commiserazione pietosa che maschera il facile risentimento, la piccola meschina vendetta personale: «Ecco proprio lui che si vantava tanto del suo lavoro, della sua posizione, ora è nella polvere. E forse gli sta bene. Anche perché qualcosa di sbagliato l’avrà fatto di sicuro perché decidessero di lasciarlo a casa». E così alla sofferenza materiale e all’umiliazione di avere cinquant’anni, sentirsi sano e in forze e non poter lavorare si aggiunge la disapprovazione sociale, la stigmatizzazione, la censura.

E però Fabio ha reagito, ha resistito alla tentazione di sprofondare nella vergogna e nella sua lettera punta il dito in una direzione precisa, andando al di là della generica lamentazione sugli effetti della crisi economica. «Il vero problema oggi – scrive Fabio che il mondo dell’impresa lo conosce bene – è della mentalità imprenditoriale italiana, piccoli cervelli che hanno un solo obbiettivo: risparmiare sui costi del personale licenziandone la metà, e facendo a lavorare il doppio per lo stesso stipendio (meglio se meno) la rimanenza. O così, o a casa. Ci sono i sindacati o non guadagno quello che vorrei? Delocalizziamo. Quindi oggi la crisi è un pretesto per moltissimi».

Certo non si possono fare facili generalizzazioni, ma è fuor di dubbio che in questi anni il capitale abbia avuto tanto spesso la meglio sul lavoro, emigrando nei territori dove il costo del lavoro era inferiore e le tutele giuridiche quasi inesistenti, ottenendo legislazioni (l’ultima quella del Jobs act) sempre più favorevoli e benevole. E riuscendo anche a diffondere l’idea che il marcio sta solo nella politica e che quello che è bene per l’imprenditore è bene anche per i lavoratori e per l’intera società. Il che non è vero. Perché gli imprenditori sono uomini e non divinità, e dunque a loro si applica il giudizio sulla natura umana che vale per tutte le altre categorie professionali.

Abbiamo ormai appreso che il capitale può essere fattore di ricchezza e di sviluppo solo se controllato, temperato, limitato nella sua potenza (talvolta autodistruttiva) da contropoteri che impediscono gli abusi, che ne contengono gli appetiti. Per fare questo non basta la magistratura, e non bastano le azioni individuali, i gesti isolati, le «soluzioni biografiche a contraddizioni sistemiche», per citare il grande sociologo tedesco Ulrick Beck recentemente scomparso. Ci vuole quel sistema di contrappesi da secoli rappresentato dai sindacati, cioè dal principale strumento collettivo che storicamente i tanti deboli hanno congegnato per contenere l’azione dei pochi forti. Organizzazioni certo da rinnovare, riformare, cambiare. Ma non certo da indebolire ulteriormente. Per il bene di tutti, anche di coloro che più degli altri rischiano di venire abbagliati dall’eccesso smisurato della loro potenza.

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