Corruzione, troppe leggi
non sono l’antidoto

Il caso Consip - come tantissimi altri nei quali è apparsa l’ombra cupa della corruzione e sono emerse vistose slabbrature nella condotta di politici e funzionari - induce a una ineluttabile domanda: possibile che in Italia, dovunque vi sia maneggio di denaro pubblico, debba sempre finire in vacca? O, per dirlo in maniera meno ruvida, possibile che non si riescano a trovare gli antidoti a fenomeni di malaffare che si ripetono con una regolarità confinante con la monotonia? Di chi è la colpa? Di regola, tanto sui mezzi di comunicazione (dai quotidiani a facebook) quanto tra l’opinione pubblica l’accusato principale è la burocrazia. Termine con il quale si fa riferimento sia ai «burocrati» in malafede, sia ai meccanismi amministrativi complicati, farraginosi, oscuri. In questo luogo comune c’è molto di vero. Ma la verità non sta tutta lì, perché oltre agli ingredienti che costituiscono la pietanza immonda e indigesta della corruttela, sono da tenere presenti altri elementi.

In primo luogo, la difficoltà obiettiva di regolare e gestire processi decisionali che coinvolgono interessi di segno diverso e, a volte, diametralmente opposto. Ogni opera pubblica, al di sopra di soglie previste dalla legge, deve essere progettata e realizzata con meccanismi che prevedano la partecipazione di più soggetti in gara tra loro. Tale principio - già presente nel nostro ordinamento - è stato ripetutamente rafforzato, sulla base di direttive comunitarie, con lo scopo esplicito di garantire maggiore trasparenza ai criteri di aggiudicazione degli appalti. Sotto questo profilo la legislazione italiana non può essere ritenuta né inappropriata, né evanescente. Al contrario, essa soffre di troppa minuziosità e di eccessiva rigidità. Caratteri entrambi volti a garantire le istituzioni da possibili abusi. Siamo quindi di fronte a un apparente paradosso: quanto più si legifera, quanto più si infarciscono le norme di paletti e di preclusioni, tanto più si verificano fenomeni di aggiramento della legge. Per turare le falle della corruzione si è seguita la strada di una hard regulation. Norme rigide e severe in virtù delle quali - attraverso la trasparenza di ogni passaggio del procedimento di gara - vi fosse la ragionevole certezza che l’opera pubblica venisse affidata al soggetto che offriva le maggiori garanzie.

Purtroppo nessuno dei criteri di volta in volta sperimentati (dal massimo ribasso ad altri metodi di aggiudicazione) ha evitato che si verificassero storture.

Il Codice degli appalti - sventolato come una muraglia inattaccabile - si è rivelato tutt’altro che granitico. Il fatto stesso che sia stato ripetutamente rimaneggiato ne è la prova. Meno di un anno fa (con un decreto legislativo del 18 aprile 2016) è stato varato il nuovo Codice dei contratti pubblici, basato sullo stretto intreccio tra meccanismi di trasparenza, strumenti di controllo e repressione della corruzione, ma anche su una radicale semplificazione delle procedure. Potrebbe essere la volta buona, benché sia d’obbligo essere cauti. Ad oggi nemmeno l’azione dell’Autorità di settore è riuscita a produrre la svolta prevista e l’Anac è come una cattedrale con una magnifica facciata ma vuota al di là della parete. Il presidente dell’Autorità ha chiari i rischi di insuccesso e sta lavorando, con i suoi collaboratori, alla definizione di una soft regulation, basata su indirizzi che lascino più margine - sempre nel rispetto delle leggi - alle amministrazioni.

Sembra un azzardo e un controsenso, date le condizioni. È vero, invece, il contrario. Gli antidoti, che si danno agli avvelenati, vanno piano piano sostituiti con gli anticorpi, che prevengono la malattia. Per battere la corruzione, occorre insistere sui controlli preventivi (da tempo messi nel dimenticatoio) e sulle ispezioni (frequenti e fatte di sorpresa) nelle amministrazioni che gestiscono appalti. Altrimenti l’unico baluardo rimarrà la magistratura. Segno che la malattia non è più guaribile.

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