Dai 5 Stelle risposte
non più rinviabili

Una premessa per sgomberare il campo dal gorgo delle illazioni: non abbiamo pregiudizi verso il movimento 5 Stelle. Ma alcune evidenze ci portano ad esprimere semmai postgiudizi, successivi appunto a fatti. La nascita di questo fenomeno politico è figlia della crisi dei partiti tradizionali, di loro riti datati e autoreferenziali, della loro difficoltà a leggere il clima sociale deteriorato. Abbiamo guardato con curiosità alla nascita di un soggetto che ha avvicinato tanti giovani all’impegno politico ed ha intercettato un malessere diffuso dandogli voce e rappresentanza.

Questo soggetto che disdegna il nome di partito, secondo i sondaggi alle elezioni contenderebbe al Pd il primato dei consensi nazionali. Un successo che implica anche una grande responsabilità, nel passaggio da opposizione appunto a forza di governo, del resto già compiuto in tanti Comuni, soprattutto a Roma e Torino. Il percorso dall’esordio nelle piazze fino all’ingresso nelle stanze del potere si è consumato in soli sette anni: un tempo breve che giustifica inciampi ed errori d’inesperienza. Sono perdonabili perfino clamorose incoerenze e cambi di rotta dettati dalle convenienze, se vanno nella direzione di dare un volto civile a una linea politica talvolta barbara: benvenga finalmente quindi il codice etico che non obbliga più parlamentari e amministratori aderenti al movimento a dimettersi dalle cariche se destinatari di un avviso di garanzia, lasciando a Grillo, ai probiviri e al comitato d’appello la discrezionalità della decisione.

Però il tempo del praticantato è finito e le risposte ad alcune urgenze non sono più eludibili, proprio per le responsabilità di governo che i pentastellati hanno assunto. A cominciare dalla formazione di una classe dirigente preparata alle sfide dell’amministrare in un’epoca storica densa di problemi e complessa. Il caso più eclatante è quello di Roma: com’è stato possibile che Virginia Raggi si sia candidata a governare il Campidoglio, luogo abitato notoriamente anche da opacità e intrallazzi, senza aver definito la squadra, al punto che sei mesi dopo il voto il Comune capitolino è ancora privo di una figura chiave come il capo di Gabinetto? Davvero è rassicurante il metodo della individuazione degli amministratori 5 Stelle attraverso l’invio per mail di curriculum da parte di perfetti sconosciuti, equiparando il governo delle città a un’azienda?

Sono poi persone come lo storico Aldo Giannulli, intellettuale vicino al movimento, e non i «poteri forti» o gli eventuali complottori anti Grillo, a chiedere una linea politica che armonizzi le proposte. Ma come tutti i «leader maximi», anche il capo supremo pentastellato privilegia percorsi senza molti riguardi per la realtà. L’altroieri ha lanciato la proposta di istituire giurie popolari con il compito di giudicare i media colpevoli «di dire più balle di internet». Giurie popolari è definizione che nel peggiore dei casi rimanda a dittature, nel migliore al festival di Sanremo.

Se vogliamo stare ai fatti e appunto non alle balle, i media tradizionali sono già sottoponibili al vaglio di un giudice, quello vero che esercita nei tribunali. Giornali e tv infatti rispondono per ciò che scrivono e dicono, oltre che al proprio pubblico, alle norme penali: dal diritto alla rettifica e alla smentita, dalle querele per diffamazione alla richiesta danni. Vincoli ai quali i «social network» (e il blog di Grillo...) sfuggono perché non sono aziende editoriali. Lungi da noi l’idea di una difesa corporativa dei media tradizionali. Ne conosciamo pregi, rischi e difetti (conformismo culturale, pigrizia intellettuale, superficialità) sui quali però Grillo veleggia con disinvoltura nella sua ascesa politica. Godendo anche di sconti che ai partiti veri non sempre sono concessi. Commentatori di vaglia hanno ad esempio infierito su Matteo Renzi nella fase cadente, invitandolo a lasciare la segreteria del Pd dove si insediò però attraverso il passaggio democratico delle primarie. Solo «il Foglio» e «Il Post» invece in questi giorni hanno dato spazio a una notizia che tocca il cuore della natura dei 5 Stelle, la trasparenza e la responsabilità dei loro processi decisionali. Il prossimo 13 gennaio il Tribunale civile di Roma si riunirà per decidere se ammettere un ricorso contro la candidatura di Virginia Raggi a sindaco di Roma, presentato da Venerando Monello (nomen omen...), avvocato esperto di diritto amministrativo iscritto al Pd. Sottoscrivendo un contratto privato con la Casaleggio Associati (la cui ragione sociale è la vendita di servizi software ad aziende...), nel quale si impegna a seguire le indicazioni di Grillo e del suo staff nell’amministrazione della Capitale, sottoponendosi a una penale di 150 mila euro in caso di tradimento del mandato, Raggi avrebbe reso la sua candidatura di fatto nulla, perché violerebbe articoli della Costituzione e regolamenti del Comune di Roma sull’esercizio del ruolo senza vincoli di mandato.

Intanto ieri Grillo si è fatto beffe di giornali e tv che hanno qualificato il nuovo codice etico come «svolta garantista». Ma ha ragione il leader: quella svolta non c’è. Il codice sancisce infatti una «presunzione di gravità», come la chiama lui stesso, su basi discrezionali. Non è cioè in linea con il principio costituzionale sancito dall’articolo 27 della Carta («L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva») difesa in toto dai 5 Stelle nella campagna per il No al referendum. Ora i pentastellati sono attesi però da un’altra urgenza: definire la propria di costituzione.

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