Democrazie, la sovranità
popolare è a rischio

L’esito delle elezioni negli Usa segna un passaggio d’epoca. Con esse si chiude il XX secolo, sotto il profilo della lunga e appassionante storia, nelle Costituzioni e nella competizione politica, di un modello di partecipazione basato su opzioni politico/ideologiche. Il voto come scelta tra programmi e valori fondanti (anche radicalmente divergenti) scricchiola e ad esso si sostituisce in parte crescente il voto come protesta. In questa torsione la delega attuata con il voto ha piuttosto i caratteri di rifiuto della mediazione operata dalla élites politico-sociali.

Ci si affida a chi si presenta come estraneo (anzi, esterno) alle forme della politica come mediazione e come sintesi di interessi. La contrapposizione frontale diventa l’atout per travolgere i criteri tradizionali della lotta politica. Siamo di fronte a una cesura rispetto alle modalità di legittimazione e di ricerca del consenso politico.

In tale contesto occorre rileggere le mutazioni che possono derivare dalla progressiva perdita di quota dei consolidati sistemi di rappresentanza politica rispetto all’irrompere di forme che rischiano di produrre effetti non prevedibili sull’assetto delle democrazie occidentali, nelle quali l’affermazione dell’universalità del suffragio si è sempre accompagnata al principio della sovranità popolare. Ovvero, all’idea che la rappresentanza riflettesse in modo adeguato – pur con meccanismi specifici in ciascun Paese – la volontà popolare. Al riguardo il sistema elettorale statunitense presenta delle peculiarità – frutto della storia del modello federale – che possono distorcere la sovranità. Come è noto, l’elezione del Presidente non è direttamente legata al numero di voti ottenuti da ciascun candidato, ma avviene per designazione da parte di delegati provenienti da ognuno degli Stati, ai quali è assegnato un numero di grandi elettori in base alla popolazione.

I cittadini che si recano alle urne scelgono i 538 «grandi elettori», numero pari alla somma dei senatori e dei deputati che compongono il Congresso americano, oltre a tre rappresentanti del District of Columbia, dove si trova la capitale Washington. Il voto è Stato per Stato (con sistema maggioritario ovunque tranne che in Maine e Nebraska): chi vince in uno Stato, quindi, porta a casa tutti i grandi elettori che a quello Stato sono assegnati. Per diventare presidente bisogna ottenerne almeno 270 grandi elettori. La possibilità che tale meccanismo sbilanci il rapporto tra voti complessivi e delegati è evidente. Ed è ciò che è accaduto nelle elezioni di martedì scorso: alla Clinton gli elettori statunitensi hanno dato il 45,7% dei voti, rispetto al 45,5% ottenuto da Trump. In termini numerici circa 300.000 voti. Ma Trump ha vinto in un maggior numero di Stati, ottenendo 290 grandi elettori contro i 228 di Hillary Clinton.

In un Paese nel quale il presidente è il capo dell’esecutivo ed ha un forte potere personale, benché ovviamente bilanciato dai poteri del Congresso, il meccanismo della elezione indiretta (basata sulla designazione dei grandi lettori) rischia di creare fratture profonde, a prescindere da chi abbia prevalso e chi abbia perso. Nei fatti, Trump governerà un Paese nel quale la maggioranza (sia pur risicata) degli elettori ha votato contro di lui. La questione va riportata, nei suoi termini, generali al delicato rapporto tra rappresentanza e funzioni di governo, tra volontà popolare e deleghe che gli elettori affidano a coloro che avranno l’onere di governare. Non è improprio sostenere che i meccanismi elettorali dovrebbero garantire al massimo la coincidenza tra voti espressi e rappresentanza ottenuta. Ciò riguarda l’insieme delle democrazie, e quindi anche il nostro Paese. Il mito della governabilità non può snaturare la volontà popolare. Altrimenti si rischia di mettersi su un sentiero molto pericoloso.

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