Economia del sapere
e Sistema Bergamo

Ogni territorio cerca sempre di valorizzare la propria specificità, il proprio genius loci. Sarebbe piuttosto grave se non lo facesse o, peggio ancora, se non ne avvertisse la necessità. E questa necessità è incessante data la continuità del cambiamento. Avere una «specificità» è l’unico modo che un territorio ha per essere riconosciuto in quanto tale, senza venir confuso con altre realtà. Un valore appunto, da alimentare di continuo e di cui avere consapevolezza. Ci sono vari modi in cui i territori tentano di raggiungere questo obiettivo: puntando per esempio sull’accesso al mercato, sulla propria immagine, sull’abilità di attrarre menti creative e imprese, e sulla capacità di rinnovare la sua governance.

Tutte cose dunque che oggi, ancor più di ieri, ci invitano a riflettere su quello che gli studiosi di varie discipline chiamano «capitale territoriale». E che possiamo definire in termini abbastanza semplici: l’insieme cioè delle risorse, materiali e immateriali, di cui il territorio stesso dispone, configurandosi, a seconda degli aspetti presi in considerazione, come punti di forza o come autentici vincoli. Il capitale territoriale è dato da tutti gli elementi che formano la ricchezza del territorio (attività industriali e commerciali, paesaggio, patrimonio artistico, musei, know-how, ecc.), ma dovrebbe servire anche per individuare specificità che meritano di essere potenziate. Si tratta di un tema su cui ha richiamato l’attenzione anche la Commissione Europea, suggerendo che «le politiche di sviluppo territoriale devono innanzitutto e soprattutto aiutare le singole regioni a costruire il loro capitale territoriale».

Ma qual è il nostro «capitale territoriale»? Ecco, è proprio questo il punto. Negli ultimi tempi, il territorio bergamasco, da sempre a vocazione industriale, è stato testimone di continue metamorfosi, in un contesto peraltro non più congiunturale, ma segnato da cambiamenti radicali e irreversibili. Ed è stata proprio la capacità di essere al passo con le trasformazioni del sistema produttivo che ha consentito all’industria bergamasca di contenere gli effetti della crisi, arrivando pochi anni fa al primo posto nella graduatoria italiana per valore aggiunto per abitante generato dall’industria e dall’artigianato. Un primato che è frutto di coraggio e coesione, a cui hanno concorso in tanti, in primis gli imprenditori nel loro aprirsi al mondo e al sapere. Forti delle nuove infrastrutture, materiali e immateriali: l’aeroporto e la conoscenza. Sappiamo che questo non basta e non basterà, poiché ci sono debolezze e punti di criticità. Sappiamo però anche che il nostro territorio ha notevoli potenzialità e che può contare su realtà già consolidate per imboccare la direzione giusta.

È indubbio che l’Università debba essere in grado di comprendere le esigenze del suo territorio, di avere un dialogo proficuo con i suoi attori, di adattare, almeno in parte, la propria offerta formativa e l’attività di ricerca, in funzione delle necessità di breve e di lungo periodo. Anzi, l’Università deve fare di tutto per intercettare le linee degli sviluppi futuri, dischiudendo prospettive al momento anche impensabili. In ogni caso, deve essere considerata parte integrante in questa visione di «capitale territoriale». In una società che cambia in modo così rapido e dove le imprese si muovono su scala globale e il sistema bancario è al centro di continue riflessioni, diventa fondamentale puntare sul «radicamento della conoscenza». Quello non lo «trasferisce» nessuno, rimane una risorsa per tutti. È una forma di investimento per il futuro: è l’economia della conoscenza, la più preziosa di tutte, perché si rigenera di continuo. Per questo non può esistere una forte Università senza un forte e coeso territorio e, lasciatemelo dire, viceversa.

Ma l’Università non è che uno degli attori in campo. Per pensare a una nuova crescita e rendere attrattivo il territorio, è auspicabile uno sforzo congiunto verso obiettivi comuni, forti e lungimiranti. Un fatto però è certo: senza un’adeguata preparazione delle nuove generazioni, che implica un equilibrio dei saperi e delle professioni, non si va da nessuna parte. Di qui la necessità di rilanciare la formazione tecnica e professionale da integrare con il mondo del lavoro, e di rivalutare il grande patrimonio artistico e culturale sia della città sia del territorio nel suo complesso. Solo così si diventa veramente attrattivi, creando le basi per lo sviluppo di nuove imprese.

Sarà certamente utile conoscere i dati del Rapporto Ocse, che gli stessi attori territoriali hanno aiutato a stendere perché interpellati dagli esperti internazionali. Non solo per avere un quadro aggiornato degli scenari, ma in vista anche delle strategie più opportune da adottare. Con una sola certezza rispetto all’ultimo rapporto di 10 anni fa: che oggi il sistema Bergamo è più forte di allora. Per questo, tra le ricette future, non deve mancare ciò che ci ha portato fino a qui: il dire per fare. E non il dire per dire o il fare per disfare.

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