Euro, conti in rosso
e il problema Italia

Molta gente pensa che il problema dell’economia italiana sia l’Europa. Con i suoi limiti al debito e al deficit, erroneamente chiamati austerità, la burocrazia continentale impedirebbe al nostro sistema produttivo di esprimere tutto il suo potenziale di crescita. Mentre, se solo ci lasciassero sperperare (pardon: spendere) qualche miliardino di euro in più di spesa pubblica allora sì che il motore ripartirebbe. Ma non sarà invece che il problema dell’Italia è… l’Italia? Per non dire che, sotto certi aspetti, l’Italia è il problema dell’Europa. Indebitata la metà della Grecia, in rapporto al Pil, ma grande quasi dieci volte tanto, è una mina vagante che, se rischiasse di scoppiare, non ci sarebbe baluardo di troika che tiene. E non ci consola l’idea che la Francia, grazie al montare del populismo, sia sempre più spesso accostata alla Penisola, benché finanziariamente più solida ma non certo molto più brillante dal punto di vista delle performance del prodotto interno.

Chi pensa a un’Italia zavorrata dalla cattiveria di Bruxelles, a sua volta assoggettata alla volontà egemonica della Merkel, è semplicemente ancorato al vecchio schema di ragionamento, semplicisticamente attribuito a Keynes, che la spesa pubblica in deficit è il carburante capace di risollevare, da solo, le economie stagnanti. Ma questa è una interpretazione di comodo, da parte di chi vuole eludere le proprie responsabilità politiche e vorrebbe maggiori possibilità di spesa. E i numeri dell’andamento economico europeo sono lì a dimostrarlo: il resto del continente, con il medesimo contesto regolamentare e lo stesso patto di stabilità, ha registrato un brillante quarto trimestre, con una crescita dello 0,5% che, secondo le stime preliminari, potrebbe portare a chiudere con un ottimo 1,8% su base annuale. E si tratta di crescita sana, solida, perché basata sul recupero della domanda interna e soprattutto degli investimenti, stimati a un tasso di aumento fra il 3 e il 3,5% all’anno. Naturalmente ne beneficia l’occupazione, con un incremento dell’1,5% dei nuovi posti di lavoro e una riduzione, lenta ma costante, della disoccupazione che oggi è scesa al 9,6%. E stanno facendo bene un po’ tutti, la già citata Francia con uno 0,4% nel trimestre e addirittura la rinata Spagna che potrebbe chiudere l’anno addirittura con uno sviluppo del 3,2%, cosa che noi non vediamo dagli anni ’80.

Già, ma come stiamo noi? L’ultimo dato Istat misura uno sviluppo trimestrale dello 0,3% e quindi un tendenziale annuale dell’1%. È chiaro che questo si riflette sulla crescita asfittica dei posti di lavoro che impedisce il riassorbimento della disoccupazione. Le analisi storiche indicano proprio in una crescita prossima al 2% l’espansione necessaria a determinare un apprezzabile indotto occupazionale. Ma noi siamo lontani. Certo, ci incoraggia lo scatto della produzione industriale del 6% nel quarto trimestre, che potrebbe portare a un aumento annuo del 1,6%. Ma nel complesso restiamo il fanalino di coda fra i Paesi europei.

Dunque, se i nostri partner riescono se non a correre, a camminare speditamente, perché noi arranchiamo? Domanda complessa, ovviamente, ma qui voglio solo dire che nel contesto dell’Unione è possibile fare di più e che il freno non è da ricercare nella compressione che Bruxelles impone ai nostri conti pubblici, compressione che peraltro giudico sacrosanta. Anzi, l’Europa fa tantissimo per noi, solo che spesso lo dimentichiamo. La politica monetaria iperespansiva della Bce (che, scusate se lo ricordo, è un pezzo dell’Unione europea) ci regala almeno 25 miliardi all’anno consentendoci di finanziare il debito pubblico a condizioni di estremo favore. Provate a pensare di aggiungere questi 25 miliardi di spese al nostro attuale bilancio e vedrete che bel risultato ne viene fuori. Quello sì che porterebbe all’austerità! E allora sarebbe bene smettere di perder tempo a litigare con Bruxelles e incominciare a darci da fare per rimuovere i problemi di casa nostra.

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