Fame zero, Bergoglio
incalza il mondo

Non si rassegna. Non la smette. Anzi va avanti, lento e inesorabile e non molla mai. Qualche volta si alza sui pedali e allora scatta a Lampedusa o all’Isola di Lesbo. Da quattro anni tiene la ruota inchiodata sulla strada dei migranti. Pedala per loro, non dimentica e fa in modo che il mondo non dimentichi. Ieri mattina alla Fao si è fatto precedere da una scultura in marmo di Carrara, nove quintali. Raffigura Aylan, il piccolo profugo siriano annegato davanti alla spiaggia di Bodrum in Turchia esattamente due anni fa.

Alzi la mano chi ricorda Aylan. Fuggiva dalla guerra, la madre di tutte le povertà insieme alla fame. Ed è morto. Quanti sono nel mondo quelli come lui? A Francesco non importa la cifra esatta, importa che ci si ricordi di loro e che si provi vergogna. Ma la memoria non è l’esercizio di un momento. È l’emozione che lascia senza fiato, la perseveranza fa ritrovare il fiato, illumina la mente e nutre la ragione.

Jorge Mario Bergoglio da quattro anni si applica esattamente a questo, persevera e impedisce che il dramma dell’immigrazione finisca nell’oblio politico, sociale e perfino religioso. Ieri ha portato l’icona del piccolo Aylan nel tempio di coloro che per mandato mondiale dovrebbero inventare metodi e strategie per evitare che la gente fugga e muoia dalla fame e dalle miserie causate dalle guerra e ora, anche, dai cambiamenti climatici.

La Fao era nata proprio per questo nel 1945, sussulto di coscienza mondiale. Ma la Fao, al di là dei risultati raggiunti nel coordinamento delle politiche e nella pressione verso gli Stati meno virtuosi, ogni giorno, per il fatto stesso di esistere, ci dovrebbe ricordare l’intreccio tra mobilità umana, guerra, produzione e distribuzione del cibo.

Se uno ha fame cerca il pane da un’altra parte. Concetto semplice su cui si scatenano le principali tensioni mondiali, che tuttavia l’immaginario collettivo globale raramente percepisce correttamente nelle loro dimensioni reali, frutto di interdipendenze sempre più complesse create apposta per non riuscire a districarle e così poter dire che si tratta di una malattia incurabile.

Bergoglio invece seguita caparbio a metterle in fila, perché non vuole arrendersi al fatto che nulla cambierà, alibi perfetto per chi in realtà vuole che nulla cambi per davvero. È questo il dramma. Si considerano normali troppe cose e si utilizza la semantica dell’emergenza, per arginare fenomeni solo quanto esplodono in maniera dirompente e disturbano la quiete dei ricchi, si tappano buchi, si arginano falle e non ci si avvede della linea di faglia costantemente aperta. Invece solo districando le dipendenze si può uscire dalla rassegnazione.

Non è impresa facile, perché i conflitti di ogni tipo, da quelli bellici a quelli ambientali a quelli economici, producono insicurezza e spingono ad emigrare. Ciò porta ad ulteriori conflitti in una spirale senza fine, oggi ulteriormente complicata dai cambiamenti climatici e da chi, ha detto ieri il Papa senza citare Trump, «por disgracia», si allontana dagli accordi sul clima. Sicuramente Francesco non è solo nell’analisi. C’è chi pedala con lui come hanno dimostrato i ragionamenti al G7 sull’agricoltura appena chiuso a Bergamo.

Ma non basta la consapevolezza di fronte ad uno che dice «ho fame». Bisogna far qualcosa di più a costo di suscitare qualche polemica o alienarsi qualche amicizia. Bisogna «condividere» ha spiegato Bergoglio, pratica che impone conversione, cioè passaggio ad un altro modello per affrontare la fame e la miseria strutturale. L’obiettivo è “#ZeroHunger” ha twittato ieri sera il Papa, fame zero.

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