Fine vita, la legge
e il rischio eutanasia

L’urgenza con la quale si sta accelerando sul ddl in discussione al Senato, recante «Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento», solleva alcuni interrogativi ai quali occorre dare una risposta. Sembra che ci si trovi di fronte ad una emergenza del nostro Paese, quella di poter morire con dignità, senza sofferenza e senza accanimento terapeutico. Ma, domandiamoci, abbiamo realmente bisogno di una legge per rispondere a queste legittime preoccupazioni dei cittadini? Molti di coloro che invocano a gran voce l’approvazione di una legge sul fine vita ritengono che, finalmente, si potrebbero «risolvere» situazioni di malattia ritenute insopportabili e non gestibili nel nostro Paese, e venga perciò superata la «necessità» di andare all’estero per gestire con «dignità» la fase finale della vita attraverso l’eutanasia e il suicidio assistito.

Tuttavia, nel testo di legge in discussione al Senato non c’è traccia di un esplicito riferimento a eutanasia attiva o a suicidio assistito ma è possibile che, se non modificato, questo testo possa prepararne il terreno ed è su questo che molti contano.

Dall’altro lato c’è il gruppo di coloro che attraverso una legge sul fine vita intenderebbero porre dei paletti alla «creatività» di alcune sentenze di tribunali, in Italia e all’estero (vedi i casi di Nancy Cruzan, Eluana Englaro, Terry Schiavo), che sulla base di una presunta non chiarezza delle leggi vigenti, hanno di fatto portato alla morte per inedia di alcuni pazienti incapaci di esprimere un consenso, ordinando la sospensione di una nutrizione e idratazione ancora efficace, sulla base delle sole volontà di tutori legali e senza peraltro che fossero state espresse documentatamente volontà anticipate.

Una legge italiana sul fine vita, cioè, dovrebbe ribadire e rendere inequivocabili alcuni principi già presenti nell’ordinamento giuridico, indeboliti dalla giurisprudenza, primo tra tutti il principio della indisponibilità della vita umana, chiarendone la ratio ed evitando che interpretazioni diverse possano portare a indebite decisioni di sospensione dei trattamenti.

Ma anche questo obiettivo non verrà affatto raggiunto pienamente con questo testo nel quale, al contrario, sono stati introdotti alcuni passaggi che – senza nominarla – veicolano l’eutanasia omissiva e lasciano intravedere sviluppi anche per quanto riguarda forme mascherate di suicidio assistito quando affermano che il medico che dà attuazione a quanto voluto dal paziente e a cui consegue la morte dello stesso «è esente da responsabilità». Non solo, ma alcune parti dell’articolato conducono ad un sovvertimento del rapporto medico-paziente nel cui processo decisionale l’ultima parola finisce per essere quella del giudice che dal suo studio pretenderà di dare indicazioni su situazioni cliniche che vanno gestite caso per caso al letto del paziente.

Indubbiamente, nel testo ci sono anche alcuni aspetti condivisibili, come la rilevanza che viene data alla comunicazione tra paziente-famiglia-operatori sanitari (tempo terapeutico, come viene definito), la pianificazione condivisa delle cure, la stigmatizzazione dell’ostinazione irragionevole nei trattamenti (che meglio sostituisce il termine controverso dell’accanimento terapeutico). Ma la deontologia professionale e la buona pratica clinica - correttamente applicate - non sono già oggi sufficienti per accompagnare i pazienti nel tramonto della loro vita? C’è bisogno di una legge dello Stato per essere implementati? Si tratterebbe, perciò, solo di riaffermarli e rafforzarli costantemente nei curricoli formativi degli studenti e nei programmi di formazione continua dei professionisti sanitari a tutti i livelli, sottolineando l’importanza della relazione e comunicazione con il paziente come pure della terapia del dolore e delle cure palliative già previste dalla legislazione italiana.

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