I calcoli di Bersani
e il populismo M5S

Sfatata l’illusione, a lungo coltivata dagli avversari, che i Cinquestelle non siano niente più che un effimero movimento di protesta anti-casta, appurato che essi sono ormai la prima forza politica del Paese, è venuto il tempo di liberarsi dei comodi cliché cui media e partiti sono ricorsi per liquidare la faccenda grillina come un banale, fastidioso incidente di percorso della democrazia.

È stato Bersani il primo a cercare di confezionare l’abito di cerimonia al M5s per poi introdurlo nel salotto buono della politica nazionale. Secondo l’ex segretario del Pd il movimento di Grillo va elevato a reincarnazione della Dc, un corrispettivo nell’era postmoderna del centro politico. A conforto di questa tesi si possono invocare due argomentazioni apparentemente forti. La prima: i Cinquestelle non si considerano né di destra né di sinistra. Ergo, verrebbe da concludere, sono di centro. La seconda: il loro elettorato proviene un po’ da tutte le sponde: dai delusi del campo progressista come di quello moderato.

L’uscita del capofila del Mdp, la formazione nata dalla scissione del Pd, non ha riscosso grandi consensi, nemmeno nel suo campo. Il sospetto è che, costretto a trovare la seconda gamba con cui far camminare il nuovo centro-sinistra da lui sponsorizzato, il buon Pier Luigi non abbia trovato niente di meglio che i Cinquestelle, arruolati d’imperio a rivestire la divisa di sostituto della scomparsa Margherita.

A ben vedere, però, l’ingaggio del M5s come forza moderata cozza contro corpose evidenze, che portano a considerarlo, se non una forza antisistema, quanto meno una variante italica del più generale fenomeno populista europeo. Innanzitutto induce a pensarlo la natura della sua leadership. È vero che la politica del nuovo millennio si indirizza verso un’accentuata personalizzazione della linea di comando. Ma, nel caso dei populisti – e, nello specifico, dei Grillini – la leadership non viene conquistata sul campo, a conclusione di una lunga, combattuta battaglia con i concorrenti. No, se l’autoattribuisce in partenza il fondatore, e guai a chi gliela tocca.

In secondo luogo, la parificazione bersaniana del M5s alla Dc non regge per un altro motivo. Il partito di Moro s’è tenuto sempre alla larga dal vagheggiare forme di democrazia diretta. Ha fatto anzi dell’intermediazione parlamentare il suo punto di forza, della concertazione sindacale il mezzo per depotenziare i conflitti sociali, della mediazione politica l’arte decisiva per costruire una rete di alleanze, passaggio obbligato per conquistare una centralità nel sistema politico. Terza obiezione: l’interclassismo democristiano era coerente con la costruzione di un blocco sociale volto alla difesa della democrazia e di una società di mercato pienamente integrati con l’Occidente liberale e capitalistico. In altre parole, l’occupazione del centro era funzionale alla costruzione di un argine alle estreme. Il contrario di quel che avviene nel caso dei Cinquestelle. Questi concepiscono l’interclassismo come un modo per conciliare le estreme. Corteggiano l’estrema sinistra con le suggestioni di un’uscita dalla Nato e dalla Ue nonché di una «decrescita felice», l’estrema destra con delle battaglie chiaramente d’ordine, quali l’allarme sicurezza o il giustizialismo. In attesa, naturalmente, di convincere gli italiani di sapere tenerle unite in un programma – e soprattutto in un’azione – di governo.

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