I dieci anni del Pd,
senza più alleati

Il suo decimo compleanno il Partito democratico l’ha celebrato in un momento di sconsolante incertezza. Non che il decennio che sta alle spalle sia stato avaro di tensioni e amarezze, lotte e rancori, quasi tutti attribuibili ad una classe dirigente dove pullulano troppe primedonne. Ma ora questo Pd decenne sa di doversi battere in condizioni di svantaggio con un Movimento 5 Stelle in cima nei sondaggi come primo partito e con un centrodestra rinvigorito dal ritorno di Berlusconi e dal movimentismo di Salvini (sia pure in difficile convivenza tra loro). I democratici invece sono ben distanti da quella soglia del 40% conquistata da Matteo Renzi alle europee del 2014; hanno subito una scissione interna e soprattutto non hanno più intorno a loro qualcuno con cui allearsi.

tante la rancorosa ostilità dell’Mdp di D’Alema e Bersani, che hanno costruito un partito al solo scopo di far naufragare il renzismo e dunque proveranno a sottrarre al Pd ogni voto «progressista», il panorama restante è desolatamente vuoto: Giuliano Pisapia è una presenza ogni giorno più evanescente, priva di seguito e di capacità di leadership; verdi, liberali, montiani, socialisti sono quasi scomparsi, e altro non si vede se non qualche radicale, gli ex berlusconiani di Alfano, un ministro «borghese» come Calenda. Il Pd affronterà le politiche 2018 confidando sull’ auto-sufficienza: ma non come Veltroni l’aveva teorizzato, fondando un partito che doveva essere il contenitore di tutto il riformismo italiano, ma per stretta necessità. E paradossalmente mentre proprio il Pd sta pilotando l’approvazione in Parlamento di una nuova legge elettorale che si propone di agevolare le coalizioni.

«Senza il Pd il populismo e le destre non si battono» ripeteva ieri Renzi al teatro Eliseo nella cerimonia per festeggiare il compleanno. Vero, il problema però è che il Pd dovrebbe battere gli avversari con le sue uniche forze, e cioè – secondo lo schema del Rosatellum – ripetere il miracolo del 40% dei voti per conquistare la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera e al Senato. Ipotesi che persino Renzi definisce «difficile», tant’è che la vulgata di Montecitorio dice – qualunque cosa racconti Berlusconi in queste ore – che nella prossima legislatura l’unica strada percorribile sarà quella di un governo di larga coalizione destra-sinistra con il compito di sbarrare la porta di Palazzo Chigi in faccia a Grillo e ai suoi ragazzi. Sempre che, beninteso, quella «grande coalizione» abbia i numeri sufficienti per mettere in piedi un governo.

Soli in battaglia ma anche soli in casa. Ieri all’Eliseo non c’erano i fondatori del Pd, a parte Veltroni e il generoso Franco Marini. Non c’era Romano Prodi, e nemmeno Arturo Parisi, e come loro assenti Enrico Letta, Francesco Rutelli (il segretario della Margherita che unì con i Ds di Fassino e appunto diede luogo al PD), la Bindi, la coppia D’Alema-Bersani. Si dirà: in fondo, è l’effetto della «rottamazione» dei vecchi grazie alla quale il meno che quarantenne Renzi conquistò la scena, il partito e poi il governo. Non è del tutto così. Perché oggi Renzi avrebbe voluto Prodi sul palco, ed è sicuramente danneggiato dall’uscita di D’Alema e Bersani (che si portano via 3 o 4 punti percentuali di voti) e persino Rutelli sarebbe stato gradito considerando che dietro di lui si fecero le ossa quelli che comandano oggi a cominciare proprio da Renzi e Gentiloni. Addirittura Parisi ha detto che questo compleanno è un giorno «di lutto e non di festa». Che non sono proprio parole gradevoli per un compleanno, diciamo.

E tuttavia il partito di Renzi, Gentiloni, ma anche di Franceschini, Fassino, Delrio, Boschi, Minniti, Orlando, dei sindaci e di tutta la compagnia dei quarantenni dovrà reggere la botta e conquistarsi palmo a palmo il terreno. Con una consolazione: i riformisti che non vogliono vedere al governo Berlusconi, Salvini o Grillo solo a loro possono aggrapparsi. Se non per amore, almeno per interesse.

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