Il deficit da sanare
tra città e periferie

Ormai non c’è elezione che non indichi una frattura fra città e campagna, fra il luogo che si vuole ipermoderno e seduttivo, abitato dal bel mondo cosmopolita, e quello che, se non ostile, ne esprime una evidente diffidenza. Un contrasto che da geografico diventa sociale, politico e di costume, perché coinvolge gli stili di vita e l’autostima, dando l’immagine semplificata di un conflitto tra avanguardia e arretratezza. Lo si è visto in modo spettacolare nel referendum britannico con la decisione di uscire dall’Unione europea: le metropoli hanno scelto di restare nell’Ue, le aree profonde per il divorzio. La replica è venuta con l’elezione di Trump e soprattutto con le recenti presidenziali in Francia: la Le Pen nelle zone metropolitane non ha toccato palla, ma ha fatto il pieno in diverse fasce periferiche, dove la distanza dal centro insiste su territori segnati dalla deindustrializzazione.

La geografia si trasforma in geopolitica e la collocazione territoriale assume un’identità politica: per molti è stata una sorpresa, in realtà è un processo carsico che viene da lontano e ce ne accorgiamo solo ora in quanto riconoscibile e stabile. Le città e le periferie che votano in modo radicalmente opposto e in maniera che proprio non te l’aspetti. Ed ecco che alle ultime amministrative la Roma bene dei Parioli ha premiato il Pd, mentre le periferie i grillini. Ma questo itinerario era già stato percorso dalla prima Lega, il sindacato del contado, la voce prealpina e della marca veneta. In questa chiave, tralasciando tutto il resto, si può leggere l’annunciata virata di Maroni sul versante della piccola patria e delle istanze autonomiste. Il territorio amico che si calpesta, che abbiamo sotto i piedi, come identità: dimmi dove abiti e ti dirò come voti. Una frattura che porta in sé un risentimento sociale, fra chi riesce a farcela e chi non tiene il passo. Temi riproposti in questi giorni anche da una ricerca della Cisl, che segnala come la coesione sociale, nella sua espressione geografica, sia stata ulteriormente ferita dalla crisi: due Italie con indicatori economici contrapposti, con il Nord che sta tornando a crescere e il Sud, storicamente già in ritardo, che continua a perdere terreno. Un Paese spaccato a metà da ogni punto di vista: Pil, andamento demografico, export, scolarizzazione.

Come se il solco fra città e provincia si moltiplicasse per estensione fra Nord e Sud. Sul piano storico, almeno in apparenza, non c’è nulla di nuovo. La sequenza della prima rivoluzione industriale aveva contrapposto gli interessi agrari delle campagne a quelli del nascente settore manifatturiero (città-campagna) e gli interessi della borghesia imprenditoriale a quelli degli operai (capitale-lavoro). Oggi, tuttavia, è cambiato il contesto, perché sul confine caldo fra città e campagna si giocano le questioni del nostro tempo: mondo global, società chiusa o aperta, disuguaglianze, cosmopolitismo. C’è un certo snobismo, di appartenenza diciamo così, negli uomini di mondo che guardano un po’ dall’alto in basso ciò che non riescono a capire semplicemente perché non lo vivono essendo nati con la camicia. Ma quando si parla degli effetti della globalizzazione e simili occorre distinguere fra scelte che si ritengono sbagliate e bisogni esistenziali che le motivano. Il libero mercato è buona cosa e s’è dimostrato fattore di pacificazione, ma è un processo virtuoso in presenza di precise condizioni, come chiariscono gli studi di Maurizio Ferrera, uno dei più autorevoli esperti europei di welfare. Una di queste è che gli scambi producano effetti redistributivi accettabili a chi vi partecipa, in particolare per i ceti più deboli. Se disuguaglianze e insicurezza prodotte dal libero commercio superano una soglia di ragionevolezza, gli effetti della modernità e dello sviluppo si attenuano e si trasformano nel loro contrario. È quel che sta succedendo nello squilibrio fra vincenti e perdenti, fra chi ha gli strumenti per conoscere e frequentare un mondo che non si lascia prendere e chi è sprovvisto di questo vantaggio competitivo. Per dirla con le parole di Enrico Letta del suo ultimo libro: la sfida dell’Europa è nel dimostrare che non si rivolge solo alle élite, ma che prima di tutto sta dalla parte dei popoli preoccupati dalla globalizzazione. In questi termini, al di là della sconfitta dei nazional-populisti in Francia, il conflitto e l’incomunicabilità fra città e provincia, due mondi ormai alternativi, restano nell’agenda della cultura politica come deficit da sanare.

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