Il maestro alla politica
«Serve più armonia»

Scordatevi un cerimoniale ingessato e un po’ barboso. Riccardo Muti, per sua ammissione, si sente in famiglia, e quindi bando ai formalismi. La partitura ha un ritmo che avvince. Muti salta di «palo in frasca» (copyright sempre suo), ricorda, canticchia, gesticola, diverte e dialoga con gli studenti, a cui va il suo primo pensiero, dopo i ringraziamenti di rito. Una parlantina con un accento partenopeo mai domo (e qualche perifrasi dialettale) parte della sua rivendicata «fiera italianità» - che lo rendono uno spettacolo. «Finirò su youtube», scherza.

Il direttore d’orchestra che il mondo ci invidia torna a Bergamo mezzo secolo dopo il suo debutto sul podio del Teatro Donizetti per ricevere la medaglia d’oro che la città gli tributa. Ha la stessa carica del venticinquenne di allora. «E se nel 1966 avevo paura perché cominciavo – ammette – oggi (ieri, ndr) ce l’ho perché devo dimostrare che questi 50 anni non sono passati invano». Sa essere leggero anche quando tratta temi belli tosti, un po’ come il «suo» Don Pasquale, l’opera buffa del compositore nato in Borgo Canale che scava con un sorriso nella profondità umana.

Muti cita Sant’Agostino - «Cantare amantis est», cantare è proprio di colui che ama - per dire che «fare musica insieme è il fondamento della società», e dovrebbe essere il fondamento anche del mondo politico. Usa il linguaggio che meglio gli si confà, per un’analisi lucida. Contrappone «sinfonia» (chiedendo al pubblico se sa cosa significa) a «cacofonia». E poi spiega, ma senza pedanteria: «La musica ci avvicina attraverso l’amore a Dio, e colui che ama è colui che vede e vuole il bene dell’altro, in modo reciproco. In un’orchestra ci sono gli strumenti a corde, a fiato e a percussione, ognuno ha la sua parte che concorre all’armonia, che poi è il bene comune. Purtroppo siamo ormai disabituati all’armonia, perché accendo la tv e non capisco un accidente di quello che dicono. Parlano tre persone contemporaneamente, una sopra l’altra: questa è cacofonia, significa non ascoltarsi».

E quindi arriva al punto che gli sta più a cuore, quello della scuola e dei giovani, uniti nell’Orchestra Cherubini che ha fondato dodici anni fa per fondere il meglio dei musicisti under 30 dei Conservatori italiani, da Nord a Sud. Ieri sera l’ha voluta fortemente ad accompagnarlo al Donizetti. «Io stesso sono un prodotto della scuola italiana», rivendica con orgoglio, strappando alla sala consiliare una delle ovazioni che ogni tanto lo interrompono. «Insegnare la musica nelle scuole è fondamentale – sostiene, con un nuovo richiamo ai politici –: ma non significa ammorbare i bambini col solfeggio sillabato. Vuol dire instradare i bambini a muoversi nella foresta dei suoni, ascoltare anche delle opere complesse di Bach, così che i bambini si abituino a penetrare nel mondo del suono, si abituino all’ascolto».

Il finale è tutto un crescendo di amarcord e risate. Come quando il direttore d’orchestra ricorda i «fastidi e le incomprensioni» a cui è andato incontro perché considerato «eccessivamente italico» oppure quando ammette di non avere più voglia di litigare con i registi «perché quando si dice fiera pensano che si parli di una tigre». Bergamo saluta il maestro come l’ha accolto, con una standing ovation. E il maestro scende dalla pedana per abbracciare gli studenti dell’istituto «Muzio» e i ragazzi dell’orchestra dello spazio autismo: si chiama «La nota in più», quella che Muti ha, e non solo nella sua bacchetta.

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