Il ritorno al passato
di un’Italia instabile

Negli ultimi vent’anni il nostro Paese ha sperimentato due tentativi di «grandi cambiamenti politici», con i governi Berlusconi e Renzi. Il primo annunciò la rivoluzione liberale, parlando di mercato e merito attraverso l’utilizzo di un lessico, sia contenutistico che formale, sconosciuto all’Italia della Prima Repubblica. Ben presto, però, ha dovuto fare i conti non solo con l’opposizione, come c’era da aspettarsi, ma anche con forze politiche alleate, preoccupate di difendere stratificazioni corporative e rendite di posizione.

C’è da dire, peraltro, che in qualche misura il Cavaliere è riuscito anche a farsi male da solo. Renzi, sfruttando un proverbiale dinamismo e spiccate attitudini decisionali, ha tentato di innovare il Paese rivoltandolo come un calzino, attraverso una serie di grandi riforme tra cui quella costituzionale. In quest’ultimo progetto è stato prima assecondato e poi abbandonato da Berlusconi, ufficialmente per non essere stato consultato nella scelta del presidente della Repubblica, in realtà, perché preoccupato dell’irresistibile ascesa che la realizzazione di riforme così importanti avrebbe assicurato al suo principale rivale.

Renzi, da par suo, ha preteso di portare avanti da solo le riforme costituzionali fino ad un referendum popolare che lo ha visto sconfitto, come avrebbe dovuto peraltro prevedere essendo solo contro tutti. Non ha tenuto conto di vivere in un Paese in cui non si può assolutamente fare a meno di un minimo di confronto e di mediazione e nel quale tutti reclamano il cambiamento, ma senza fare sacrifici e solo se riguarda gli altri. Di ciò era ben al corrente Giacomo Leopardi, il quale già a inizio Ottocento, nel saggio «Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani», scriveva: «Ciascuna città italiana non solo, ma ciascun italiano fa tuono e maniera da sé. Or la vita degli italiani è appunto tale, senza prospettiva di maggior sorte futura, senza scopo e ristretta al solo presente». È questa la mirabile fotografia di un Paese conservatore, che non vuole correre rischi o avventure e nel quale ognuno cerca di difendere il proprio tornaconto. Il mite Gentiloni, dopo il referendum cerca di fare tutto il possibile per rasserenare gli animi degli italiani, gravati anche da pesantissime calamità naturali, ma deve fare i conti con una situazione economica e politica del Paese che appare assai poco rassicurante. La crescita è ancora attestata a livelli tali da non poter favorire una ripresa sensibile dell’occupazione, mentre le varie parti politiche appaiono sempre più impegnate ad alimentare contrasti e a tirare il più possibile l’acqua al proprio mulino, preoccupandosi più delle proprie sorti che di quelle del Paese. Questa situazione, che è certamente conseguenza della mala politica degli ultimi vent’anni, sta alimentando risentimenti e nostalgie. Si risente così parlare della Prima Repubblica, che pareva ormai essere stata messa in soffitta per tutto quello di negativo che aveva rappresentato. Tutto ciò si accompagna ad una sempre più forte tentazione di fare i conti con nuove elezioni e, visto che l’Italicum è stato ridimensionato dalla Suprema Corte, tornano i balletti del passato sulla ricerca di una nuova legge elettorale.

Il «Mattarellum» proposto dai democratici, che in ogni caso assicurerebbe la governabilità, non incontra altri consensi. Il Movimento 5 Stelle si è convertito ad un Italicum da aggiustare per il Senato, mentre Berlusconi si è chiaramente schierato per il ripristino del «proporzionale puro». Le reazioni a questa proposta, che in passato anche i 5 Stelle avevano caldeggiato, sono state tali da far pensare che potrebbe proprio essere questa la scelta cui si andrà incontro. Questa legge, utilizzata nella Prima Repubblica, garantiva la massima rappresentanza, ma allo stesso tempo creava le condizioni per una perenne instabilità, visto che in settant’anni di storia repubblicana sono stati costituiti 64 governi. Risulta davvero inspiegabile, quindi, questa diffusa propensione per una legge che, applicata oggi, determinerebbe condizioni d’instabilità ancora maggiori rispetto al passato, visto che le tre grandi formazioni politiche, qualora non raggiungessero il 40%, sarebbero difficilmente in grado di trovare un benché minimo accordo. C’è, tuttavia, chi sostiene che la nostalgia del passato, che sembra aver contagiato anche l’animo del «popolo sovrano», potrebbe influenzare le forze politiche fino al punto da superare qualunque valutazione razionale. Circola sul web una provocazione: «Quando mettiamo in discussione la scelta tra repubblica e monarchia? Non si può fare? Ma chi lo stabilisce, il popolo viene sempre prima di tutto».

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