Il ritorno di D’Alema
La resa dei conti

D’Alema è un abile tattico, come sanno per esperienza subita Prodi e Veltroni, e in lui la razionalità elitaria prevale sui sentimenti. La scissione, abbozzata nel segno di un laburismo ora tornato in auge, non va presa sottogamba sia per il peso specifico dell’uomo sia per la crisi in cui si sono cacciati i dem: sarebbe la prima diaspora organizzata nell’unico partito-sistema nel Paese. È vero che gli abbandoni un po’ in tutti i partiti hanno condotto all’irrilevanza chi li ha voluti, ma questi sono tempi eccezionali ed è opportuno non fare previsioni, tanto più che la frattura non è una linea retta che divide ex popolari e sinistra.

La base del partito non capirebbe un simile passo del gambero e, nel mentre, i più ragionevoli si chiedono se questo frastuono tutto interno al Pd, nella cucina di casa, non sia l’ulteriore conferma della distanza dall’anima popolare, dalle sofferenze e dalle urgenze del Paese reale.

La prima impressione è che nella nomenclatura del Pd si sia depositato un grumo tale di risentimenti da azzerare il punto di partenza che crea una comunità politica: il rispetto reciproco. Un po’ un clima da fratelli-coltelli, da resa dei conti e di piccoli protagonismi, l’esito di una non gestione del partito o di un’azione semplicemente di comando: dalla rottamazione che ha colpito le persone all’assenza di un dibattito vero e proprio (ancora manca un’analisi della sconfitta referendaria), dal desiderio di rivincita della minoranza all’indisponibilità dei due fronti a trovare un punto d’incontro. Il resto è un effetto a cascata: sospetti, recriminazioni, timore di essere esclusi dalle liste elettorali. È come se si stessero radunando in un colpo solo tutti i problemi nati con il renzismo, rimasti in ombra fin quando le cose andavano bene: quel format che era stato voluto da quasi tutti dopo il fallimento della stagione di Bersani. Come ha detto il Grande vecchio della sinistra, Emanuele Macaluso, «Bersani e D’Alema non sono fuori dalla tempesta, non sono due vergini».

Lo stesso Renzi subisce questo effetto di ritorno: quelle che erano le sue qualità oggi rimbalzano come un irrimediabile deficit. Ragionando per paradosso, verrebbe quasi da dire questo: un partito che ha perso la misura ideale, capace di stravincere (41% alle Europee) e nel contempo di straperdere. L’altra impressione è che il combinato fra vittoria del No al referendum e sentenza della Corte costituzionale apra un ciclo politico e istituzionale inedito che supera la portata della nuova legge elettorale: un’atmosfera da nuovo inizio, un po’ come è successo nel ’93-’94 con la fine della Prima Repubblica e che, invece del crollo del crollo del Muro, deve misurarsi con populismo, Brexit e dintorni. Il «liberi tutti» ipotizzato da D’Alema, ancor prima di essere una minaccia, rientra nella logica del proporzionale, il sistema con il quale andremo a votare: liberi, perché le coalizioni di governo si decidono dopo e quindi nulla vieta che possa iniziare un processo di reinvenzione di una sinistra sociale che fa il suo partito, in quanto ritiene chiusa la fase dello stare insieme.

La debolezza di Renzi, più che dalla sconfitta al referendum in sé, potrebbe derivare dalle conseguenze che si sono innescate, ben intuite a suo tempo dal fronte del No, e che hanno spalancato le porte al proporzionale. Il renzismo, per le sue caratteristiche naturali, vive in uno scenario maggioritario e in una democrazia competitiva: o vinco io o un altro. D’Alema è svelto e sa da che parte tira il vento: la sinistra di governo è ovunque in ritirata e può essere il momento di rischiare, abbandonando i compagni di viaggio. Sempre che i suoi calcoli siano giusti.

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