Istituzioni, grammatica
che non c’è

La vittoria del No al referendum è l’esito di un confronto esagitato, talvolta convulso, da parte di molti perfino scomposto. Le ultime settimane, in particolare, sono state contrassegnate da polemiche ai confini della tollerabilità civile. A risultato acquisito ritrovare una «cifra» consona ad una democrazia matura è il primo passo da compiere. I toni e i modi del dibattito politico non sono - nella delicata fase che stiamo vivendo nel Paese - meno importanti dei contenuti sui quali si svilupperà il confronto.

Le dimissioni del presidente del Consiglio aprono una fase di incertezza con la quale occorrerà misurarsi. Adesso le decisioni passano nelle mani del presidente della Repubblica, il quale si muoverà di certo con il consueto rigore istituzionale nelle difficili scelte da compiere. È ciò che incombe sui vertici delle istituzioni. Chi invece guarda allo scenario che si è aperto con il referendum non può non riflettere sulle pesanti forzature politiche provocate dagli strappi degli ultimi mesi. La scelta di indire il referendum non era obbligatoria. L’articolo 138 della Costituzione, al riguardo, è estremamente chiaro. Allora è lecito domandarsi come mai Renzi abbia deciso di chiedere conferma all’elettorato sulla sofferta approvazione del progetto del governo: presumibilmente per ottenere quella «investitura» che gli mancava e che egli ha creduto di poter ottenere in forma di plebiscito sulla sua persona. Così facendo però ha caricato di significati personalistici il voto referendario, provocando - o almeno contribuendo ad alimentare - un confronto politico dai toni irragionevolmente aspri. Doppio errore (si direbbe in termini tennistici), perché la conferma non era necessaria e perché, soprattutto, il calcolo si è rivelato errato. Di fatto, Renzi ha sciupato un patrimonio di opportunità, dilapidando la messe di consensi che si era conquistata all’interno e all’esterno del Pd.

Questa la cornice entro la quale vanno sia collocate altre, pesanti, sgrammaticature istituzionali, sia registrati i troppi luoghi comuni che hanno punteggiato il confronto politico precedente il voto di domenica. Per alcune forze politiche il referendum doveva servire per «mandare a casa» Renzi. Cosa che, nella realtà, è avvenuta, ma non per motivi istituzionali. Il governo, nel nostro ordinamento, può essere sfiduciato soltanto in Parlamento e le elezioni politiche sono il momento in cui si sceglie una maggioranza (che può essere nuova o la stessa precedente al voto) dalla quale emergerà un governo guidato dalla persona che il Presidente della Repubblica sceglierà rispettando la volontà popolare. A Renzi è stata addossata - nell’infuriare delle risse televisive - un peccato originale: la mancanza di legittimazione, in quanto era arrivato a Palazzo Chigi senza aver vinto le elezioni. Argomento quanto mai peregrino, poiché nessuna norma impedisce che il capo dello Stato nomini il presidente del Consiglio senza che si via stata una consultazione elettorale. È sufficiente che il governo si presenti in Parlamento e ottenga la fiducia delle Camere. In realtà, le dinamiche che si sono sviluppate intorno al referendum mostrano il pericoloso groviglio nel quale si sta avvitando la politica nel nostro Paese. I fili intricati di tale situazione potranno essere sciolti soltanto se si riuscirà a tornare a una grammatica istituzionale adeguata. Il nuovo esecutivo non potrà che avere una continuità istituzionale rispetto al governo Renzi. Le elezioni anticipate sarebbero una follia. Al governo spetterà promuovere un confronto pacato per approvare (con la massima condivisione possibile) una legge elettorale che non alteri la volontà popolare. In prospettiva - sarebbe troppo ottimistico pensare di farlo adesso - occorrerà riflettere sulla costituzionalizzazione delle leggi elettorali, che rappresentano uno dei fondamenti degli ordinamenti democratici e non possono essere in balìa di maggioranze occasionali.

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