Italia, quante
occasioni perdute

Negli ultimi anni vi sono state alcune favorevoli occasioni delle quali il nostro Paese avrebbe dovuto approfittare. Una delle più importanti si è presentata a seguito dell’introduzione dell’euro, che ha creato le condizioni per una lunga fase di tassi molto bassi, pari quasi allo zero. Ciò avrebbe dovuto favorire interventi di contenimento del nostro pesante debito pubblico, alla cui crescita avevano enormemente contribuito proprio gli interessi a due zeri degli anni Ottanta. Così, come sappiamo bene, non è stato. L’incontrastato prevalere del partito trasversale della spesa, ci fa trovare oggi a dovere fare i conti con un debito che è costantemente cresciuto fino a 2.278 miliardi, pari ad oltre il 130% del Pil.

La diffidenza che spesso manifesta l’Ue nei nostri confronti prende spunto proprio da questa grave inadempienza. Un’altra grande opportunità, di cui si è approfittato solo in parte, riguarda l’utilizzo del «quantitative easing» che rappresenta un’efficace manovra di politica monetaria straordinaria, attuata con determinazione da Mario Draghi. Il suo scopo è, anzitutto, quello di dare sostegno al debito pubblico dei Paesi europei – esclusa la Grecia, per la quale è stato posto in atto un programma specifico di interventi – al fine di scoraggiare la speculazione internazionale sui Paesi più indebitati come il nostro. Ciò avviene con l’acquisto da parte della Bce di titoli del debito pubblico a breve scadenza in possesso delle banche, cui è fornita liquidità a tassi bassissimi. Il secondo obiettivo che si propone il Qe è quello di creare liquidità disponibile da destinare al finanziamento dell’economia reale e, quindi, a sostegno della crescita economica, della produzione e dell’occupazione.

Quando il denaro creato dal Qe non arriva all’economia reale, gli effetti della manovra si riducono al solo alleggerimento dei debiti sul debito pubblico. Cosa non da poco, ma che certamente non soddisfa tutte le finalità di questa manovra. Ebbene, in Italia solo una piccola parte della liquidità è stata destinata al finanziamento dell’economia reale.

La gran parte è stata utilizzata dalle banche per riacquistare obbligazioni proprie e per ristrutturare il proprio capitale in vista dei «coefficienti patrimoniali» che l’Europa ha imposto per consolidare il sistema creditizio.

Le occasioni mancate non sono state solo queste. I governi degli ultimi 25 anni hanno più volte annunciato riforme fiscali organiche, capaci di ridurre il debito e finanziare la redistribuzione del reddito. Annunci demagogici che sono sempre rimasti tali. Eppure, la necessità di questa riforma è avvertita da molti e non a caso, in prossimità delle elezioni nazionali, si sta oggi assistendo al solito balletto di proposte, tra le più varie, sulle quali è assai arduo fare affidamento.

L’ex premier Matteo Renzi propone di tagliare le tasse di 30 miliardi di euro l’anno, attraverso un aumento programmato del deficit (2,9%). Alcune forze politiche propongono una «patrimoniale» incentrata prevalentemente sulle ricchezze immobiliari. C’è chi sostiene che si debbano tassare i «robot», in quanto il loro utilizzo nei settori maturi genera profitti con risparmi sul costo del lavoro.

C’è anche chi, come Salvini, propone un intervento choc come una «Flat- Tax» (imposta unica) del 15%, cui si contrappone quella del 25% proposta dall’Istituto Bruno Leoni. Ebbene, se per assurdo tutte queste sollecitazioni potessero confluire in un’organica e incisiva riforma fiscale che, per favorevoli condizioni politiche, avesse l’approvazione del Parlamento, non sarebbe comunque sufficiente per realizzare un rilancio sostenuto dell’economia e una sensibile riduzione del debito. Perché ciò accada, sono assolutamente necessarie riforme costituzionali che siano in grado di alleggerire il peso dell’apparato statale, di definire meglio i compiti dello Stato e delle Regioni e realizzare, riguardo a queste ultime, una consistente diminuzione del loro numero attraverso opportuni accorpamenti.

La riforma costituzionale del governo Renzi, bocciata dal referendum dello scorso dicembre, non era una riforma organica e non era, per molti aspetti, condivisibile. Oltretutto, è stato inopportuno affidarne l’approvazione ad un referendum popolare che, com’era prevedibile, si sarebbe concentrato su un sì o un no alla leadership del capo del governo proponente. Se fosse passata, tuttavia, viste le grandi contrarietà che aveva suscitato in tanti partiti e in eminenti costituzionalisti, ci sarebbero state tutte le condizioni politiche per avviare una nuova fase costituente, riproponendo la centralità del Parlamento. Dopo quanto avvenuto, invece, si ha netta la sensazione che di riforme costituzionali non si parlerà più per molti anni.

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