Italiani? Mammoni
con qualche ragione

Ieri Eurostat ha diffuso gli ultimi dati sui giovani tra i 18 e 34 anni che vivono ancora con i genitori. Naturalmente ci dice quel che sapevamo già. Anzi, forse la notizia non è nemmeno l’alta percentuale di «bamboccioni» che albergano da mamma e papà nel nostro Paese, bensì il fatto che in Europa c’è uno Stato – uno solo, beninteso – che fa addirittura peggio di noi: la Slovacchia. Battute a parte, le cifre offerte sono davvero sconfortanti: in Italia due «giovani adulti» su tre vivono ancora in casa con i genitori (la percentuale è del 67,3 per cento).

Ma buona parte del restante 33,7 per cento, c’è da scommetterci, è composto da ragazzi costretti a emigrare dal Sud al Nord o all’estero per via degli studi o del lavoro. La differenza rispetto alla media dei ragazzi dell’Unione europea (47,9 per cento, che resta sempre piuttosto alta, uno su due) è di quasi 20 punti. Il divario cresce ancora nella fascia tra i 25 e i 34 anni,quella nella quale si dovrebbe aver finito di studiare e si comincia a lavorare. Qui i giovani a casa «da mammà» passano dal 48,4 per cento del 2014 al 50,6 per cento a fronte del 28,7 per cento in Ue e del 3,7 per cento della Danimarca. Oltre quattro giovani su dieci in questa fascia che vivono con mamma, lavorano a tempo pieno. Il «mammone» non è più nemmeno l’antonomasia di un fatto negativo, oggetto del generale dileggio, come il Tommasino di «Natale in casa Cupiello» (ricordate? «Se non mi portate dentro il letto la zuppa è latte, non mi muovo!»).

È diventata una condizione assolutamente normale. Ma la cosa grave è che questo trend è in aumento mentre nel resto d’Europa diminuisce. La percentuale degli italiani che vivono a casa con i genitori è cresciuta di quasi due punti tra il 2014 e il 2015, passando dal 65,4 per cento al 67,3 per cento, mentre nell’Unione è scesa dal 48,1 per cento al 47,9 per cento. Come detto, l’Italia è superata solo dalla Slovacchia, che ha il 69,6 per cento di «mammoni».

Tutte queste percentuali ci confermano un fenomeno ben preciso, al netto da considerazioni culturali e antropologiche, che pure esistono (si sa che in Italia la mamma è sempre la mamma): se siamo diventati il Paese dei Tommasino è perché i giovani italiani non dispongono di quell’indipendenza economica tale da poter spiccare il volo fuori dal nido. Nella maggior parte dei casi non hanno un lavoro (la disoccupazione giovanile è al 40 per cento con punte del 70, dico 70 per cento, nel Mezzogiorno), mentre quelli che sono riusciti a fare un’esperienza lavorativa non dispongono né del posto fisso né di garanzie economiche tali da poter affrontare con serenità un futuro indipendente.

A questo punto la storia dei «bamboccioni», termine improvvido coniato dall’allora ministro dell’Economia di Romano Prodi, Tommaso Padoa Schioppa, non regge, perché le cause di questa mancata indipendenza stanno nella crisi profonda in cui è precipitato il nostro Paese da oltre quindici anni. Una crisi in cui, come nel mito di Crono, i padri si stanno mangiando metaforicamente i figli, senza poter dar loro alcuna speranza per il futuro. Anche l’ultima manovra economica, fortemente proiettata verso l’appuntamento elettorale referendario, non sembra voler cambiare rotta: lo testimoniano gli aumenti destinati ai pensionati di prima e seconda fascia. Per carità, Dio sa quanto ne abbiano bisogno, senza aggiungere che probabilmente molti di questi pensionati destineranno le nuove risorse ai nipoti, ma non è rovesciando la piramide e trasformando i giovani in assistiti cronici che usciremo dalla palude in cui si ritrova il Paese. Il problema è che i pensionati hanno una maggiore propensione ad andare a votare, sono in numero superiore, sono più ricchi dei giovani (per la prima volta nella storia d’Italia) e la politica dunque si adegua, senza compiere scelte coraggiose che ci permetterebbero di non segare l’albero su cui siamo seduti.

Quanto alla generazione dei trentenni e dei ventenni, quella che Edoardo Berselli chiamava la «generazione immobile», forse verrà il giorno in cui lo sconforto e la rassegnazione cederanno il passo alla rabbia e alla ribellione. Forse la dura contestazione di Renzi a Palermo, nel corso dell’inaugurazione dell’anno accademico, è un primo, timidissimo segnale.

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