La crescita fatica
Italia in affanno

Dal commento dei dati contenuti nel «Compendio di indicatori 2016 della produttività» diffuso dall’Ocse si evince che a partire dal 2000 circa il 90 per cento delle economie dei Paesi più industrializzati ha segnato un rallentamento del trend di crescita della produttività. Questo allentamento della produttività, unito all’aumento delle disparità di reddito, «sono entrambi ostacoli che rischiano di innescare un circolo vizioso a tutto svantaggio della crescita, rendendo vani gli sforzi che mirano a rilanciarla».

In questo pianeta della crescita che rallenta, l’Italia soffre più degli altri. Ce lo dice la stessa Ocse che ha stimato per l’Eurozona una crescita di +1,5 per cento nel 2016 e di +1,4 per cento nel 2017 e ha, invece, ridimensionato le stime di crescita per l’Italia portandole al +0,8 per cento per il 2016 e per il 2017. Secondo l’Istat, dati ancor più negativi riguardano la produttività, che cresce anch’essa molto meno rispetto al resto d’Europa. Dal 2000 ad oggi è progredita solo dell’1 per cento, mentre la media dei nostri concorrenti europei raggiunge il 16 per cento. Nel manifatturiero, nostra punta di diamante, la crescita è stata del 17 per cento, contro il 35 per cento in Germania, nostro principale Paese concorrente.

Tale situazione rende necessari alcuni interventi, che devono muoversi in due direzioni. Sul terreno della macro-economia, si rende necessario che il governo realizzi misure adeguate di politica economica, fiscale, industriale e delle infrastrutture. Sul piano «micro», occorre che le imprese facciano un salto culturale in termini d’investimenti, di capacità d’innovazione e di utilizzo del «capitale umano». Riguardo a quest’ultimo aspetto, sempre l’Istat evidenzia che in Italia dal 2007 si assiste ad una compressione dei salari reali, che avrebbe dovuto rendere più competitive le nostre aziende nello scenario internazionale.

Ciò, però, non è avvenuto per la concomitante azione di due fattori negativi: l’andamento dello stock di capitale fisso, che ci dice se l’impresa è disposta ad investire; il livello della spesa in ricerca e sviluppo, che evidenzia la propensione del sistema Italia a investire per sviluppare nuove tecnologie, nuovi prodotti, nuovi processi. Ebbene, lo stock di capitale netto nel Paese è cresciuto ad un tasso sempre più basso negli anni dello sviluppo massiccio dell’informatica applicata all’industria e ai servizi (cioè dal 1990 in poi), facendo sì che agli inizi della crisi il Paese si presentasse poco attrezzato per rispondere alle nuove sfide dei mercati. Analogamente, le spese per ricerca e sviluppo sono cresciute sensibilmente meno rispetto a Paesi come Germania, Francia e Inghilterra, raggiungendo anche valori al di sotto della Spagna e del Portogallo. Di fronte a questo scenario assai critico, il nuovo presidente di Confindustria Vincenzo Boccia ha indicato una direzione concreta per rilanciare la crescita dell’economia e della produttività, a vantaggio di imprese e lavoratori. Richiamando gli accordi innovativi degli anni scorsi, ha evidenziato la necessità «di costruire una grande piattaforma di scambio tra salario e produttività» e ha aggiunto: «Dobbiamo dare possibilità ad ogni singola azienda di costruire un modello contrattuale che permetta di recuperare produttività».

Su questa lunghezza d’onda si è posto recentemente Matteo Renzi che, lanciando «Industria 4.0», ha annunciato che nella prossima legge di stabilità, utilizzando la flessibilità concessa dall’Ue, saranno previste, tra l’altro, misure specifiche per il rilancio della produttività quali: il rafforzamento della detassazione del contratto di produttività (1,3 miliardi tra il 2017 e il 2020); il raddoppio del credito d’imposta per investimenti in R&S (dal 25 per cento al 50 per cento).

Su queste proposte alcuni sindacati si sono mostrati abbastanza disponibili. Meno favorevole appare la posizione della Cgil, come si evince da alcune dichiarazioni di Susanna Camusso, per la quale: «Nel Paese ci sono troppe disuguaglianze. Bisogna ridurle invece di farle aumentare» e, ancora, «è necessario che anche il salario nazionale venga detassato». Se questa posizione prevalesse, sarebbe impossibile fare passi avanti sul piano della contrattazione aziendale, con inspiegabili passi indietro anche rispetto ai patti inter confederali di questi ultimi anni. Vincenzo Boccia, per la sua parte, ha dichiarato di voler ripristinare relazioni industriali coerenti con i più recenti contratti innovativi, ma ha margini di manovra molto stretti senza un accordo coerente e organico sul salario di produttività.

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