La crisi del pd
suona sinistra

Due giorni ancora di tempo per sapere se il Pd resta unito o si spacca: l’assemblea nazionale dem, dunque, non è stato l’ultimo round, ma il penultimo. In realtà la conclusione, se vogliamo chiamarla così, ancora ieri sera era molto confusa e riguarda da vicino l’opposizione interna: divisa, incerta sull’affondo finale, prigioniera di un tatticismo esasperato, un po’ avanti e un po’ indietro. L’impressione è che la scissione non formalizzata sia comunque nell’ordine delle cose, già decisa, quasi trainata per inerzia, somma di tanti errori ed esito di una mai scalfita incomunicabilità fra i due fronti. Le tappe di ieri sono state un paio. Bersani, alla tv, ha detto che Renzi ha alzato un muro. Poi il documento congiunto di Rossi, Emiliano e Speranza in cui si addebita la frattura al segretario dimissionario, che aveva aperto i lavori tirando dritto verso il congresso. Non è chiaro come la nota ultimativa del terzetto si coniughi con il tentativo di mediazione di Emiliano, una giravolta visto che il governatore della Puglia è stato fra coloro che hanno accelerato la crisi. Infine, la sortita finale: i dissidenti si sono presi 48 ore di tempo per verificare l’ultima disponibilità di Renzi e in caso contrario sarà scissione.

Quel che si capisce è che la minoranza, con la forzatura di intestare al leader dem la responsabilità della spaccatura, cerchi di chiamarsi fuori da un azzardo ai limiti dell’irresponsabilità e impopolare nella base del partito. È difficile stabilire quanto un Renzi così indebolito abbia effettivamente lavorato per evitare l’irreparabile e il fuorionda del ministro Delrio segnala un malessere non solo individuale e che filtra dalla stessa maggioranza.

Appare invece meno problematico vedere nell’offensiva dell’opposizione interna il rifiuto tout court di Renzi segretario, senza passare dalla conta del congresso. Dopo dieci anni di vita il Pd, il perno del sistema politico e la principale componente eurosocialista, vive la sua crisi più drammatica con una torsione tutta interna: una involuzione da ceto politico, estranea ai tormenti della base e distante da un Paese reale che soffre. Ben pochi hanno capito il motivo del contendere, in molti si sono chiesti se vi sia del razionale in questa corsa autodistruttiva, in tanti si sono interrogati sulla adeguatezza di una contesa di pochi mesi sulla data del congresso. Il punto di svolta è stata la sconfitta al referendum, alla quale ha contribuito anche la minoranza del Pd. Un prima e un dopo, perché quel voto ha archiviato il sistema maggioritario, cioè l’ambiente che ha generato il renzismo, cambiando il campo di gioco: il prossimo arrivo del proporzionale equivale al «liberi tutti», veicolando i cespugli di prossima formazione alla sinistra del Pd come intenderebbero fare i D’Alema e i Bersani con la loro Rifondazione socialista.

Ma su quella sponda di testimonianza e di romantica nostalgia non c’è vita per una sinistra di governo, tanto più che è un’area già scissa e dove la regola aurea «due teste, quattro partiti» non sembra tramontare mai. L’esperienza di Rifondazione non è stata esaltante e in giro per l’Europa questa sinistra appare fuori campo. Ma la crisi del Pd precede lo spartiacque del referendum: da un lato la difficoltà di Renzi di ascoltare e coinvolgere e dall’altra l’idea di considerare usurpatore chi non viene dalla propria storia, ritenersi ancora dentro un vecchio percorso che ha soltanto cambiato nome. Il Pd, per la sua natura plurale di cittadinanza politica aperta, è un soggetto fragile, in bilico fra il complesso di primo della classe e la tentazione di farsi del male: una comunità di frontiera, con una sintesi non ancora giunta a maturazione.

La frattura, se effettivamente ci sarà da parte dei D’Alema e dei Bersani, potrebbe avere ricadute non piacevoli anche sul governo, fra il referendum sui voucher e la prossima manovra finanziaria dove si dovranno trovare le coperture per evitare l’aumento dell’Iva. Lo stesso Renzi dovrà cambiare formula, narrazione, perché fin qui, trascurando il partito, s’è affidato all’esclusiva della propria leadership e dell’azione del governo con risultati anche positivi, ma che ora non bastano più.

La crisi esistenziale del Pd, quella identitaria del centrodestra e l’immaturità istituzionale dei grillini aprono un ciclo di incertezza e imprevedibilità.

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