La dignità del lavoro
Il Papa parla chiaro

Davanti agli operai e ai cassintegrati dell’Ilva di Genova Papa Francesco sgombra ogni equivoco sulla priorità di un’economia al servizio dell’uomo: il lavoro, la chiave di tutto, fonte di sussistenza («dacci oggi il nostro pane quotidiano») ma soprattutto di dignità. Lavoro e non reddito di cittadinanza, che in fondo è una forma di elemosina e serve solo nei casi di emergenza, ma in periodi transitori, in attesa di trovare o ritrovare un impiego oppure per quelle fasce sociali impossibilitate a rientrare nel mercato del lavoro per età o impedimenti fisici.

Naturalmente il pontefice non cita Grillo, ma le considerazioni sul pensiero del leader dei 5 Stelle, che del reddito di cittadinanza ha fatto la sua bandiera, sono inevitabili. Nessun assegno sociale potrà mai sostituire quella grande dignità che solo un lavoro può fornire. Le parole di Francesco si inseriscono perfettamente nel solco della dottrina sociale della Chiesa, dalla Rerum Novarum di Leone XIII («il lavoratore non è una merce») alla Laborem Exercens di Giovanni Paolo II, il Papa operaio, ma acquistano un rinnovato vigore, anche alla luce della crisi infinita che stiamo vivendo, proprio in una città come Genova, la città del lavoro e dei portuali, ancora ferita dalle piaghe sociali indotte dalla globalizzazione.

«Il lavoro oggi è un rischio - dice Francesco - perché il lavoro oggi non si considera con la dignità che ha e che dà». Cita il comando di Adamo, il Papa argentino («Va’, fa crescere la terra, dominala») ma per celebrare le vere virtù dell’imprenditore, colui che crea il lavoro, non esita a ricorrere al pensiero di un economista liberale come Luigi Einaudi e alla sua celebre dedica all’Impresa dei Fratelli Guerrino, che risale al 1960 e che tanti industriali ancora oggi hanno appesa al muro dietro la scrivania: «Migliaia di uomini producono e risparmiano nonostante tutto quello che noi possiamo inventare per molestarli, incepparli, scoraggiarli. È la vocazione naturale che li spinge; non soltanto la sete di guadagno. Il gusto, l’orgoglio di vedere la propria azienda prosperare, acquistare credito, ispirare fiducia a clientele sempre più vaste, ampliare gli impianti, costituiscono una molla di progresso altrettanto potente che il guadagno. Se così non fosse, non si spiegherebbe come ci siano imprenditori che nella propria azienda prodigano tutte le loro energie ed investono tutti i loro capitali per ritirare spesso utili di gran lunga più modesti di quelli che potrebbero sicuramente e comodamente ottenere con altri impieghi».

Francesco è durissimo verso l’imprenditore che non tiene conto della dignità del lavoratore, utilizzandolo come un macchinario o un prodotto in stoccaggio. «Chi pensa di risolvere il problema della sua impresa licenziando gente non è un buon imprenditore, è un commerciante. Oggi vende la sua gente, domani vende la dignità propria». Per il Papa l’imprenditore deve essere a sua volta un lavoratore, perché solo un lavoratore conosce il senso della fatica, delle difficoltà, e della dignità connaturata a questa attività. «Lo speculatore è una figura simile a quella che nel Vangelo Gesù chiama mercenario per contrapporlo al buon pastore, lo speculatore non ama l’azienda e i lavoratori, usa azienda e lavoratori per fare profitto. Licenziare, chiudere, spostare l’azienda non gli crea nessun problema perché lo speculatore usa, mangia lavoratori e mezzi per il suo profitto». Per questo, dice, bisogna temere gli speculatori, non gli imprenditori. Quanto alla politica, questa favorisce più i primi che i secondi: «Paradossalmente il sistema politico sembra incoraggiare chi specula sul lavoro e non chi investe e crede nel lavoro perché crea burocrazia e controlli. Chi è uno speculatore trova il modo per eluderli e così, regolamenti pensati per i disonesti finiscono per penalizzare gli onesti». Non c’è nessun sindacalista e politico che abbia declinato questi concetti con tanta chiarezza e vigore, sottoponendoli all’attenzione di un Paese intero. Francesco lo ha fatto con una nettezza totale, mettendo in luce la grande contraddizione dell’articolo uno della Costituzione («L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro»). In base a questo dunque «togliere il lavoro è anticostituzionale». Qualcuno ci aveva fatto caso?

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