La partita energetica
e il nostro vecchio tubo

Un’esplosione in Austria e in Italia è subito allarme gas. In un attimo si parla di aumento dei prezzi e di difficoltà per le aziende. Il passo successivo è lì a un millimetro: case fredde in inverno. Questa volta, dopo l’incidente a Baumgartner an der March e la sospensione del flusso del gas in arrivo dalla Russia, ci siamo fermati in tempo. Altre volte, per esempio nel 2006 e nel 2012, quando il flusso fu bloccato ancora più a monte, in Ucraina, a causa del contenzioso politico ed economico tra Kiev e Mosca, abbiamo varcato pure quella soglia d’allarme. Eppure mai l’Italia ha corso un vero rischio. Rarissimamente abbiamo dovuto ricorrere alle riserve, e le nostre sono tra le più cospicue in Europa: ne abbiamo per 12,8 miliardi di metri cubi, più altri 4,8 miliardi di riserve strategiche, che ci consentirebbero di far passare 15 giorni prima di dover pensare a razionamenti e tagli. Mai gli addetti ai lavori si sono davvero preoccupati. Blocco o non blocco, anche questa volta il cittadino italiano non si sarebbe accorto di niente se i giornali non ne avessero parlato.

Com’è ovvio e com’è giusto, è subito partito il discorso sulla necessità di diversificare le fonti di approvvigionamento. Nel mirino del ragionamento c’è la Russia, da sempre grande fornitrice di gas a tutta l’Europa. L’Italia dipende da Mosca per il 38% dei consumi, sostanzialmente in linea con il resto del continente che va a gas russo al 35%. Noi siamo più dipendenti dalle importazioni (al 92%), è vero. Ma non è che gli altri stiano tanto meglio. L’Europa, in media, dipende da gas importato per il 70% dei consumi, il che di fatto vuol dire: nessuna autonomia.

Diversificare le fonti, allargare il parco fornitori è cosa buona e giusta, economisti e casalinghe la pensano allo stesso modo. Però bisogna distinguere. La fissa della diversificazione è partita quando l’Unione europea si è messa in contrasto con la Russia per la questione dell’Ucraina, tra riannessione della Crimea e sostegno agli indipendentisti del Donbass. Per «punire» Mosca sono state decise le sanzioni e si è pensato di indebolirla riducendo la dipendenza dal suo gas, tagliando gli acquisti e quindi privandola di introiti preziosi. Tutto bene ma dev’essere chiaro che si tratta di una decisione politica, perché la Russia (e prima ancora l’Urss) è sempre stata un fornitore affidabile e il suo gas ha un prezzo molto concorrenziale. Altrimenti non si spiegherebbe perché nel 2017, con la crisi economica globale in corso, Mosca abbia battuto tutti i record quanto a esportazione di gas. Inoltre, poiché i gasdotti arrivano da lontano (anche il famoso e contestato Tap porterebbe gas dell’Azerbaigian), nessun può garantire che tutto andrebbe liscio nel viaggio, per migliaia e migliaia di chilometri e attraverso decine di frontiere, dal fornitore al consumatore. Il vero senso di questi allarmi, allora, sta in qualcosa di diverso. In primo luogo, nel richiamo che la coscienza di consumatori occidentali ci lancia e che dice: caro mio, dipendi ancora da questi combustibili fossili, altro che storie. E questi fossili stanno per lo più in posti del mondo dove non andresti mai a vivere, amministrati da regimi che ogni giorno ti vengono descritti come pericolosi e inaffidabili. Che cosa pensi di fare? Niente, ovvio. Ma in questi casi il richiamo disturba. Anche perché a esso si affianca un altro pensiero inquietante. E cioè, che il nostro mondo produce trovate meravigliose, puoi fare un intervento chirurgico a distanza o mostrare il nipotino che sta in Australia al nonno che vive sui monti del Trentino. Ma hai sempre bisogno che qualcosa esca da un tubo. Il banale, vecchio tubo del tempo che fu. Con un piede nel passato e l’altro nel futuro, siamo sospesi sul crepaccio del presente, che ogni tanto ci dà le vertigini. Ma poi passa. E comunque abbiamo le riserve.

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