La sanità malata
cerca un futuro

È triste, ma è così. La lenta agonia che l’ospedale di San Giovanni Bianco ha iniziato ormai da un paio d’anni sarà la stessa che nei prossimi tempi (mesi, forse) colpirà tutti o quasi i piccoli presidi ospedalieri come questo, bergamaschi, lombardi o italiani che siano. Non ci sarà distinzione. Un percorso ineluttabile per il semplice fatto che i soldi per continuare a gestirli come si deve (e come meriterebbero…) sono finiti: non ci sono più, e difficilmente torneranno ad esserci. Di chi le colpe?

Ciascuno ha i propri «j’accuse», ma la verità è che siamo tutti colpevoli, dalla classe politica – che per anni ha concesso al servizio sanitario pubblico di pagare prestazioni inutili o comunque scarsamente efficaci, alimentando il sistema per fini spesso elettorali o di propaganda, passando per la classe medica – che per non saper né leggere né scrivere ha trascorso anni a iper prescrivere –, finendo con noi pazienti, spesso «complici» dei medici nella richiesta continua di esami, tormentandoli con le nostre paure e le nostre insicurezze. Insomma, ce n’è per tutti, tranne che per le casse del Servizio sanitario.

Un problema per gli ospedali pubblici, anche quelli grandi, per i quali si andranno via via a restringersi i cordoni della borsa, con la conseguente impossibilità (non domani, certo, ma nemmeno non troppo lontano nel tempo) di vedersi azzerare i deficit di bilancio. Da qui, la necessità di usare il bisturi non solo in sala operatoria, ma anche per tagliare costi, e dunque servizi. L’unica ad avvantaggiarsi di tutto ciò sarà la sanità privata accreditata, da sempre assai più brava di quella pubblica nel contenere i costi e massimizzare i ricavi, intercettando prima e meglio i cambiamenti, gestendoli poi con più efficacia ed efficienza, cominciando dal contenimento degli sprechi per arrivare a vere e proprie campagne di marketing anche fuori dai tradizionali confini, con l’obiettivo di attirare nuovi bacini di utenti. Un aspetto che anche il «pubblico» farebbe bene a tener presente proprio in virtù di competenze tecniche e scientifiche che nulla hanno da invidiare ai «competitor». Forse è giunta l’ora che l’ospedalità trovi alleanze e collaborazioni tra pubblico e privato senza più falsi ideologismi e schieramenti opportunistici.

Anziché crescere, dunque, i piccoli ospedali sembrano essersi avviati verso la chiusura. E la politica? Ne uscirà con le mani pulite perché – paradossalmente – a decretare la chiusura di questi presìdi non saranno gli amministratori, ma i cittadini, gli stessi che oggi sarebbero disposti a salire sulle barricate pur di non vederli chiudere. Del resto, a furia di avere servizi sempre più risicati, saranno i primi a perdere la fiducia, preferendo dirigersi altrove. Resta il problema di come riconvertire queste strutture, di come e dove curare i malati, che, stante l’allungamento della vita media, saranno sempre di più e sempre più «complicati», o comunque sempre più «costosi». Anche la tecnologia ci metterà del suo. Prendiamo ad esempio quel che – fortunatamente – è successo con i continui adeguamenti sul fronte della sicurezza stradale. Cinture, caschi e airbag da una parte, tecniche di rianimazione e macchine sempre più sofisticate dall’altra hanno mutato radicalmente le condizioni: prima spesso si moriva sul colpo, oggi si ci salva, a volte senza grosse conseguenze, a volte con pesanti o pesantissime disabilità, costose per il servizio sanitario pubblico, costose e pesanti per i malati e i loro familiari. Chi può, paga di tasca propria prestazioni aggiuntive; chi non può, si adegua a un sistema non sempre in grado di dotare il territorio dei servizi e delle strutture necessarie. C’è poi tutto l’ambito delle malattie neurologiche croniche, Parkinson e Alzheimer in primis, in crescita esponenziale nei prossimi anni, complici anche i cocktail di droga e alcol che troppi giovani assumono inconsciamente da un decennio a questa parte. Malattie «silenziose» che le famiglie di oggi e di domani (non più patriarcali, ma composte per lo più da tre persone) non sono e non saranno più in grado di gestire da sole. Risorse non mancherebbero sul fronte del welfare, ma il «sociale» e il «socio-sanitario» dovrebbero forse dialogare meglio e con una programmazione ancor più condivisa. Il ruolo del territorio è fondamentale, ma sarà capace di rispondere adeguatamente alle richieste?

La nuova legge regionale dovrebbe raccogliere questa sfida, ma oggi come oggi è difficile dire se sarà in grado di vincerla. Se si vuole vedere il bicchiere mezzo pieno, tra gli aspetti positivi della riforma c’è la volontà di prendere in carico il paziente già ai primi sintomi della malattia per non abbandonarlo mai più, e di puntare comunque sulla prevenzione, per cercare di «evitare» che si ammali, cambiando anche l’atteggiamento culturale della classe medica. Se lo si vuole vedere mezzo vuoto, è che questi stessi aspetti non saranno completamente applicabili fino a quando non saranno modificate le modalità di finanziamento del sistema, non più solo attraverso i Drg – i rimborsi per ogni singola prestazione erogata al paziente – ma in base alla presa in carico complessiva delle sue fragilità.

Al di là di tutto, alla fine, il bicchiere resterà comunque a metà. E per riempirlo sembra profilarsi all’orizzonte un’unica via di uscita: le assicurazioni o le «mutue» private. Il nuovo business «sulla» sanità italiana sarà questo, sperando che non diventi «quello» della sanità del Bel Paese.

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