La sentenza
e l’intreccio politico

Molte dietrologie si sono fatte intorno a questa sentenza della Consulta. Per i consueti, tortuosi bizantinismi della politica italiana, quelli per i quali nulla è mai chiaro nelle intenzioni e nei risultati, si aspettava la decisione della Corte Costituzionale sui referendum promossi dalla Cgil per capire quando e come andare al voto anticipato. Un cittadino sarebbe legittimato a chiedersi: ma che c’entra? C’entra, perché se la Consulta avesse reso ammissibile il referendum sull’articolo 18 cancellato dal governo Renzi, avrebbero avuto forza quelli che vogliono le elezioni al più presto: se infatti si sciolgono le Camere anticipatamente, i referendum ammessi si rinviano di un anno e dunque, pur di evitare una consultazione tanto lacerante, i contrari al voto in primavera avrebbero dovuto cedere le armi, e anche Mattarella avrebbe dovuto ascoltarli. Si diceva che anche Renzi fosse tra coloro che speravano in una sentenza favorevole all’ammissibilità del referendum, e pensate voi che ghirigoro: un referendum promosso per cancellare una delle sue principali riforme avrebbe potuto essere utile alla causa dell’ex premier ansioso di correre alle urne per avere la sua rinvincita. E poi ci lamentiamo perché la politica italiana è incomprensibile all’estero.

Sta di fatto che quel referendum non si farà, la Cgil non potrà sferrare il suo colpo di maglio contro - appunto - una delle principali realizzazioni del governo del segretario del Pd, e non potrà avere il suo scalpo ideologico. Già, perché chiamare alle urne contro i «licenziamenti facili» un popolo oppresso da lunghi anni di crisi economica, con la disoccupazione all’11,9% (e con quella giovanile a livelli stellari, tra i più alti in Europa) avrebbe sicuramente consegnato la vittoria a Susanna Camusso, alla sinistra del Pd e a quel che resta della sinistra radicale: una prova del genere avrebbe seppellito per chissà quanti anni anche la sola prospettiva di una sinistra riformista non pronta a soddisfare i voleri della Cgil e i suoi principi ideologici, e avrebbe aperto la strada ad un Partito democratico più simile ai laburisti di Corbyn che ai socialdemocratici europei. Questa prova di forza, che avrebbe restituito agli ex pidiessini di D’Alema e Bersani il comando sul Partito democratico, non ci sarà, e difficilmente questo potrebbe scontentare Matteo Renzi, qualunque siano le sue tattiche per andare al voto al più presto.

Restano in campo i due referendum «minori», quello sui voucher e un altro sugli appalti. Sono due argomenti, soprattutto il primo, sul quale in Parlamento da tempo si sta lavorando per alcune modifiche sostanziali. L’obiettivo dei proponenti, il principali dei quali è l’ex ministro del Lavoro Cesare Damiano, è quello di evitare gli abusi che si sono verificati nell’uso dei voucher. Il governo, per bocca del ministro del Lavoro Giuliano Poletti, si è dimostrato favorevole a delle modifiche, e già questo depotenzia lo scontro politico sull’argomento. Se si arriva a quelle modifiche in Parlamento, i referendum non si terranno e l’iniziativa della Cgil risulterà fallita nella sua interezza. Certo la Camusso annuncia un ricorso in sede europea, ma sembra una mossa ormai in chiave difensiva. Del resto, sulla stessa questione dei voucher, molta della credibilità della confederazione di Corso d’Italia è stata erosa dalla scoperta che in casa sindacale quei buoni per il lavoro temporaneo vengono usati eccome, tanto che il presidente dell’Inps Tito Boeri ha accusato di ipocrisia i proponenti del referendum. La sinistra del Pd già annuncia il suo «sì» al referendum qualora non si riducano gli abusi nei voucher, ma è probabile che Roberto Speranza, neo candidato alla segreteria del partito, non abbia occasione di incrociare con Renzi le lame in un duello su questo campo.

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