La sinistra da costruire
e il rischio rivincite

La forza tranquilla di Gentiloni e il realismo di Padoan, le cui quotazioni beneficiano dell’inizio della ripresa economica, stridono con la forza debole del Pd in crisi strategica da un anno, dopo la sconfitta al referendum costituzionale. Fin qui il partito-sistema, che ha pilotato l’uscita dalla doppia recessione. Le previsioni di un insuccesso elettorale s’accompagnano ad un’eventuale ingovernabilità, sempre che dal cilindro non esca l’ipotesi di una coalizione Pd-Forza Italia: in ogni caso non indolore, almeno per i democratici.

Renzi ha aperto al centrosinistra largo: lo ha fatto tardi, quello del federatore non è proprio il suo mestiere, comunque ci prova. Fassino il mite, il pontiere addetto alle missioni impossibili, porterà a casa qualche risultato: la Bonino, forse Pisapia, mentre la tenda di Prodi sembra rientrata nel perimetro del Pd. Non l’Ulivo, non è più quella stagione, ma un qualcosa che dia l’idea della fine dell’autosufficienza renziana.

È quasi certo che la ditta D’Alema-Bersani non sarà della partita: del resto il sodalizio deve dimostrare che la scissione ha avuto un senso e che rende sul fronte identitario. L’importante è sconfiggere il partito di Renzi: l’obiettivo esclusivo è questo, quantomeno vissuto con una determinazione superiore al contrasto che sarebbe lecito e necessario attendersi verso il centrodestra e (soprattutto) verso i 5 Stelle. Nella testa fredda e razionale di D’Alema giocano molti fattori, ma la sua riconosciuta intelligenza politica sovente è stata spesa in senso negativo. Stupisce che Bersani si sia accodato: per il suo passato, quando si lasciava descrivere quasi come un liberale, e per la simpatia umana che riscuoteva nel popolo Pd. In campo ci sono rancori, ripicche, convenienze elettorali, differenze programmatiche e soprattutto, fra i principali contendenti, il lascito nervoso della frattura. Per una certa sinistra, quella purosangue come l’ha definita il sociologo Luca Ricolfi, il nemico è storicamente l’interlocutore che meno t’aspetti, quello più vicino: non c’è confine netto, lo spazio per la neutralità è assente e, nel contesto di una generale vicinanza, anche le differenze più piccole vengono radicalizzate. Il fuoco amico come malattia rigeneratrice. Il conflitto tra consanguinei sarebbe materia più per psicologi che non per analisti politici. Ammesso e non concesso, poi, che il popolo (meglio: i popoli) di sinistra sia interessato e capisca qualcosa di un infinito contenzioso fra nomenclature. C’è la pretesa un po’ illiberale di stabilire ciò che è di sinistra e ciò che non lo è, di essere gli arbitri del bene e del male: tema assai discusso da tante voci e mai concluso, se non con verità avvelenate.

Poco importa che pure quella sinistra sia andata un filino a destra, e proprio con D’Alema al governo, ma è un test non valido. Perché lo aveva stabilito, a fin di bene, chi comunque si ritiene dalla parte del giusto. C’è un certo complesso d’inferiorità rispetto ai movimenti e c’è pure la presunzione di essere gli autentici interpreti delle masse popolari, nel frattempo scappate di mano, anche se questa sinistra sembra avere molto a che fare pure con i tic del ceto medio riflessivo, non esattamente composto da nullatenenti. Quel che più colpisce, specie da parte di D’Alema che su questo ne sa più di altri, è il non voler prendere atto dello schema di gioco a livello europeo uscito dall’offensiva dei populisti. Là dove, per una forza riformista, sarebbe avvertito come prioritario il tentativo di arginare le estreme. L’autocritica s’impone per Renzi (per certi aspetti la sua recente apertura sembra andare in questa direzione), ma anche per i suoi detrattori con una riflessione che ancora non c’è: sostituendo la responsabilità e la fatica di costruire con la rivincita non si lavora forse per il re di Prussia?

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