La strage di Srebrenica
Una memoria senza rispetto

I vent’anni dal massacro di Srebrenica, la città della Bosnia (oggi sul confine con la Serbia) dove i miliziani del generale serbo Ratko Mladic sterminarono 8.372 bambini e uomini musulmani bosniaci, con la retorica e l’ipocrisia che li accompagnano, dovrebbero esserci di lezione sul fatto che la memoria, anche quella che dovrebbe essere più condivisa, può essere facilmente trasformata in grimaldello politico. E che anche il dolore più atroce e assoluto può essere sporcato, sfruttato e alla fin fine pervertito.

Tutta la fine dell’ex Jugoslavia, come ben sappiamo, fu accompagnata da violenze di ogni genere. Pagine cupe che nessuno, in Europa, pensava di dover rivedere dopo la fine della Seconda guerra mondiale. La stessa strage dei musulmani di Srebrenica fu accompagnata da una lunghissima serie di altre atrocità: oltre 23 mila persone furono deportate, migliaia di donne violentate, villaggi abbattuti e distrutti, campagne devastate. Lasciando sul terreno, e ancor più negli animi, un’eredità di rancori che resterà viva e bruciante per chissà quante generazioni.

A fronte di tutto questo, i potenti di ieri e di oggi, che dovrebbero chinare il capo e semmai pregare per i morti se ne sono capaci, non rinunciano alle solite speculazioni. L’ultima è quella della Russia di Vladimir Putin, che al Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha bloccato con il veto la proposta di definire «genocidio» il massacro di Srebrenica. Il Cremlino certo sa che già nel 2004 il tribunale per i crimini di guerra dell’Aja aveva stabilito che invece proprio di genocidio si trattava, per il deliberato tentativo dei comandanti serbo-bosniaci di eliminare per sempre una parte della popolazione musulmana. Ma il tentativo di mantenere certe zone d’influenza ( e forse anche, proprio in questo senso, per esercitare un certo ricatto indiretto sul Belgrado e il governo della Repubblica di Serbia) ha spinto la diplomazia russa a schierarsi su una posizione che compiace i serbo-bosniaci (oggi circa un terzo della popolazione della Bosnia-Herzegovina) ma certo non aiuta a comporre i rancori e a lenire le memorie.

Non che sull’altro lato si stia molto meglio. Bill Clinton ha presenziato alle commemorazioni in programma a Srebrenica, insieme con Madeleine Albright che all’epoca era il suo Segretario di Stato. L’ex presidente rivendica a proprio merito l’intervento americano contro Slobodan Milosevic e non gli mancano le ragioni: l’inazione dell’Europa e la condotta dei caschi blu olandesi dell’Onu, che per paura consegnarono ai killer di Mladic 300 musulmani di Srebrenica che si erano rifugiati nella loro base, resteranno il marchio della nostra vergogna. Ma le recenti rivelazioni consiglierebbero anche agli americani maggiore prudenza: nei giorni del massacro i negoziatori occidentali incontravano Milosevic e Mladic senza mai fare cenno alla strage che pure seguivano in diretta attraverso i satelliti della Cia. E l’Onu, a quanto pare, fornì agli stragisti serbi 30 mila litri di benzina per i camion che trasportavano i musulmani alla fucilazione e i caterpillar che coprivano i loro corpi.

Samantha Power, ex giornalista e autrice di un bellissimo libro sulla politica Usa e le stragi del Novecento, è ora ambasciatrice degli Usa all’Onu. Dopo il voto, ha detto che «il veto della Russia spezza il cuore alle famiglie delle vittime di Srebrenica ed è una macchia sul Consiglio di Sicurezza». Ha ragione. Forse non sa, però, che per gli Usa e per il suo governo tuttora non è genocidio quello degli armeni da parte dei turchi, con un milione e mezzo di morti tra 1915 e 1916. Certe memorie, quella di Srebrenica compresa, hanno troppa dignità. Meriterebbero più rispetto.

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