La tassa sul web
Questione europea

La novità più importante della legge di bilancio in discussione alla Camera è certamente il tentativo di introdurre una web tax sui guadagni delle grandi multinazionali on line. Intenzione di per sé lodevole, perché chi fa guadagni miliardari dovrebbe giustamente pagare le relative tasse, ma il problema è: dove? Trump pensa in Usa, i Paesi a fiscalità facile pensano a se stessi. L’Italia che spazio può avere? Secondo R&S Mediobanca si tratta di un fatturato mondiale di ben 558 miliardi, con 85 di utili, 1,3 milioni di dipendenti, una liquidità corrente di 400 miliardi e soprattutto una capitalizzazione di quasi 2.800 miliardi, sei volte l’intera Borsa di Milano e poco meno dell’intero Pil della Germania. L’Italia è ancora un piccolo mercato (25° posto su 28 in Europa) e le 21 multinazionali «software&web» valgono da noi 1,5 miliardi e 5.800 posti di lavoro. Introdurre, noi per primi, una web tax è un po’ velleitario, almeno fino a quando si chiarirà il concetto di stabile organizzazione in un certo Paese. Lo dimostra la recente conclusione del caso Ue-Apple-Irlanda. Alla fine, l’Irlanda ha ceduto. Accetterà, bontà sua, che Apple le accrediti 13 miliardi di euro di tasse non pagate secondo le regole europee.

Dublino ha fatto resistenza ma, minacciata di infrazione, e comunque molto a malincuore, incasserà infine una cifra che corrisponde a quasi due terzi dell’intera manovra di bilancio del nostro Paese. L’evento, che sembra surreale al normale contribuente inseguito da avvisi 5 anni dopo aver pagato 15 euro in meno di Imu, offre la possibilità di almeno due considerazioni generali sulla differenza tra il mondo reale e il mondo come rappresentazione, cioè quello, oggi in voga, dei problemi complessi da risolvere con soluzioni semplicistiche, in questo caso facendo la voce grossa con le multinazionali. Innanzitutto, l’Irlanda insegna che la sovranità fiscale di ultima istanza di uno Stato, nel mondo globale, non è più solo un fatto contabile.

Dublino preferirebbe non incassare quei 13 miliardi, e continuare a far pagare lo 0,01 anziché il già modesto 12,5 delle altre imprese, perché nel conto complessivo tutte le multinazionali del web, installandosi nel suo verde territorio, porterebbero tali vantaggi che 13 miliardi sono davvero quisquilie. Meglio così che veder scappar via una ricchezza che ha azzerato la crisi, trasformando un’economia tardo agricola e modestamente industriale in un’economia di servizi (70% del Pil), con stipendi medi in questo ambito di 70 mila euro. La seconda riflessione riguarda appunto la nostra legge di bilancio.

Al Senato la montagna ha partorito un topolino, che Franco De Benedetti ha definito un errore ideologico. Altro che miliardi: a fatica, si sono ipotizzati 114 milioni di introito, per di più con beffa incorporata. Anziché una tassa sui venditori era diventata un dazio sugli acquirenti (modello Amazon fuori). L’economista GianPaolo Galli, oggi deputato Pd, ha commentato: «Si volevano colpire i giganti del web e si finisce per colpire le Pmi italiane». Alla Camera si sono accorti di questa classica eterogenesi dei fini e – contrordine - pensano di rimediare: via il 6% sui «servizi» digitali, e ipotesi di tassazione molto bassa (1-2%) sulle transazioni (modello Amazon dentro). L’introito previsto salirebbe a 6-700 milioni. Se c’è da far brutta figura, almeno che valga la pena.

Ma c’è comunque molto ancora da risolvere, avendo contro i migliori avvocati del mondo. Si dice web, ma le modalità di transazione cambiano a seconda delle varie App utilizzate, e soprattutto, finché ci sarà un posto in Europa in cui queste multinazionali trovano comodo pagare le tasse (poco, come si è visto; Facebook ieri ha annunciato che dichiarerà i ricavi nei Paesi dove li realizza), perché mai dovrebbero pagarle anche da noi? Si torna al punto di partenza: la questione è almeno europea, e infatti la legge in discussione sposta al 2019 la sua validità. Come dire: multinazionali del web, non preoccupatevi, stiamo facendo finta…

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