La terra santa
e il fatto compiuto

Il conflitto israelo-palestinese è il termometro dello stato di salute della politica internazionale. In un tempo non lontano quel conflitto era al centro dell’agenda delle diplomazie e del dibattito pubblico. Poi altre urgenze e la rassegnazione alla sua presunta inestricabilità lo hanno relegato ai margini. È prevalsa la politica cinica del fatto compiuto, del riconoscimento di una situazione sul terreno ritenuta immodificabile: non si crede più nella possibile nascita di uno Stato palestinese, del quale restano brandelli di terra scollegati fra loro, un «bantustan» che potrebbe essere istituzionalizzato al più in uno Staterello.

Le responsabilità sono molteplici, locali e internazionali. I governi israeliani dopo il fallimento degli accordi di Oslo si sono affidati proprio alla politica del fatto compiuto, riconosciuta ieri alla Casa Bianca nell’incontro fra il presidente americano Donald Trump e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, accentuando la colonizzazione della Cisgiordania dopo aver rinunciato agli insediamenti a Gaza per ragioni anche demografiche: lì vivevano 7.500 coloni tra un milione e mezzo di palestinesi e la difesa militare di quella esigua presenza era diventata insostenibile.

La logica del «divide et impera» avviata a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 ha dato i suoi frutti, con l’ascesa di Hamas e l’indebolimento progressivo dell’Autorità nazionale palestinese (Anp). La morte di Yasser Arafat nel 2004 fu celebrata anche dai media italiani come l’avvio di una nuova fase, con la possibilità di una leadership meno fumantina e corrotta, più disponibile al compromesso. La storia ha dato torto a quelle letture. Il manicheismo con il quale l’Occidente tende a guardare le vicende del mondo ha poi associato inopinatamente la causa palestinese all’ascesa del terrorismo internazionale di matrice islamica, ignorando alcune evidenze: la propaganda dell’Isis non ha mai avuto al centro quella causa né l’Isis per fortuna ha Israele tra i suoi obiettivi principali; le alleanze dicono altro: Hamas ha tra i suoi sodali gli Hezbollah libanesi e l’Iran, impegnati congiuntamente nel dare la caccia in Siria al sedicente Stato islamico; fra gli alleati d’Israele c’è invece l’Arabia Saudita, che foraggia attraverso fondazioni private la diffusione dell’islam più oltranzista, quello di casa wahabita. Questi dati di fatto scompaginano i luoghi comuni attraverso i quali leggiamo il conflitto israelo-palestinese e ci dovrebbero indurre a una maggiore profondità di sguardo.

Trump ieri ha promesso impegno per «un grande trattato di pace» accreditando ufficialmente per la prima volta da parte Usa anche la soluzione di un unico Stato binazionale, invitando poi Israele a «fermare la costruzione degli insediamenti per un po’». Netanyahu ha invece definito «etichette» le alternative di uno o due Stati, senza nemmeno prendere in considerazione le conseguenze delle due ipotesi sulla controparte palestinese. Del resto, forte dell’appoggio del neoeletto Trump, il suo governo recentemente ha dato il via libera alla costruzione di 618 nuove case per cittadini ebrei nella parte Est di Gerusalemme a maggioranza araba e di altre 2.500 nelle colonie in Cisgiordania. Il Parlamento ha invece approvato una legge che regolarizza gli insediamenti su terre private palestinesi. Questi provvedimenti violano il diritto internazionale che vieta ad uno Stato di alterare i territori occupati. Ma Israele considera quei territori non occupati, bensì «contesi» e motiva la politica di colonizzazione con la necessità strategica di dare profondità al proprio, esile territorio. Ha sempre più peso politico però la componente della destra religiosa che mira a ricostruire in Giudea e Samaria (cioè in Cisgiordania) «Eretz Yisrael», la Terra d’Israele biblica.

A 50 anni esatti dall’avvio dell’occupazione della Cisgiordania, nella zona «C» dei territori palestinesi (la parte più estesa rispetto alla «A» e alla «B» e contraddistinta da queste per essere totalmente sotto il controllo dell’esercito dello Stato ebraico) vivono mezzo milione di israeliani, tra 2,5 milioni di arabi, altri 200 mila invece a Gerusalemme Est. La diffusione delle colonie e il loro destino non sono però «un’etichetta» come vorrebbe far credere Netanyahu, ma hanno una ricaduta pesante sulla vita quotidiana dei palestinesi. I loro spostamenti sono quotidianamente messi in forse e alterati da posti di blocco, strade percorribili dai soli coloni, reticolati e muri, negando di fatto libertà di movimento. In più la colonizzazione ha sottratto terre coltivate e fonti d’acqua. Così il popolo palestinese, compresa la minoranza cristiana, si trova stretto fra le insidie dell’occupazione e i grandi giochi della politica internazionale, con i regimi arabi che hanno strumentalizzato il conflitto per assecondare i propri disegni di potere. E nella Terra Santa, in attesa della giustizia vince la politica del fatto compiuto

© RIPRODUZIONE RISERVATA