Il dolore
per quei figli

Cinque giovani bergamaschi morti sulle strade in due giorni. Una tragedia che richiederebbe solo silenzio per lasciare spazio al dolore e alla partecipazione al lutto, ma che ci obbliga a sottolineare come non si possa ancora scrivere la parola fine alle stragi sulle strade. In Italia l’obiettivo europeo di dimezzare le vittime entro il 2010 è fallito, anche se nel Terzo millennio la diminuzione degli incidenti mortali è stata sensibile. Nella nostra provincia si è partiti dalle 168 vittime del 2000 per scendere alle 53 del 2015, quindi un calo netto del 68,45%. E, almeno in Bergamasca, l’obiettivo Ue sarebbe stato centrato.

Il problema, però, cambia se osservato dal punto di vista anagrafico: la gran parte dei 1.638 morti nella nostra provincia dal 2000 a oggi sono persone tra i 18 e i 30 anni rimaste coinvolte in incidenti il sabato o la domenica tra le 23 e le 4, soprattutto sulle strade della Bassa. Un quadro nel quale si inseriscono, purtroppo alla perfezione, le giovani vittime di questo weekend. Segno evidente di un problema non risolto. Quali siano le cause non sta a noi stabilirlo. Troppe le incognite, nonostante il recente inasprimento delle pene con l’introduzione del reato di omicidio e lesioni stradali. E, soprattutto, troppo forte il dolore per puntualizzazioni e analisi. Oggi non è il tempo dei processi, ma del pianto. A essere travolta dal dramma è l’intera Bergamasca e non solo le comunità di questi ragazzi. Chi, in cuor suo, non ha provato tristezza per queste cinque vite spezzate? E quale genitore, immedesimandosi in mamma e papà di Alessandro, Alessio, Daniele, Simone e Raffaele, non ha percepito lo strazio del distacco improvviso da un figlio? Chi è padre o madre sa che non c’è sofferenza maggiore di sopravvivere al proprio figlio. Quando si crea una famiglia si è consapevoli che, prima o poi, i «cuccioli» sceglieranno il proprio cammino volando via dal nido.

Del tutto innaturale e profondamente crudele appare invece il distacco prematuro causato dalla morte del figlio. Per un genitore è come un’amputazione, una parte di sè che non esiste più. È arduo accettare un corpo che non è più quello di prima. Non è una malattia dalla quale si può guarire. Il senso di vuoto apre voragini di disperazione nelle quali è facile scivolare senza possibilità di risalita. Perché non basta rincuorare, non è sufficiente dire a questi genitori che è stata una fatalità, che il ricordo dei loro figli sarà sempre vivo. La solitudine del cuore, provocata da una tragedia senza senso, è senz’altro il rischio più grande al quale andranno incontro. Non lasciamoli soli. Trasformiamo in punto di forza quel legame, quel collante che, seppur a fatica e non scontato, rende ancora solide e solidali le nostre comunità. Non solo oggi e domani, giorni in cui il sentimento di sgomento è forte e diffuso, ma dopodomani, fra un mese, fra un anno, quando la vita sarà tornata per tutti sui binari della routine. Questi ragazzi sono anche figli nostri.

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