La vera babele
delle elezioni subito

Non era ancora nato il governo Gentiloni che già risuonava nel mondo politico la parola d’ordine: elezioni subito. All’apparenza i partiti erano - e sono - tutti d’accordo a sciogliere la Camere anticipatamente; ma, nel frattempo, l’appuntamento delle urne continua a slittare. I conti, insomma, non tornano. Vale la pena forse di sceverare meglio la questione. Come sempre, è nei dettagli che si nasconde il diavolo. E nel nostro caso, i dettagli rischiano addirittura di annullare l’impegno alle urne. Se si fa attenzione ai pronunciamenti dei partiti si noterà che essi hanno in genere un significato ambiguo.

Ci si augura il voto subito, ma precisando che questo si svolgerà appena possibile. Si apre, insomma, il lungo elenco delle condizioni cui si sottopone l’auspicio: un modo come un altro per non confessare le riserve che si nutrono al proposito.

Il primo requisito richiesto, enunciato autorevolmente anche dal Capo dello Stato Sergio Mattarella, è che la legge elettorale sia unificata per Camera e Senato onde evitare il pasticcio sommo di avere due assemblee difformi e in tal modo far sprofondare il Paese nell’ingovernabilità. Facile a dirsi, ma difficile a farsi. Nemmeno all’interno del partito di maggioranza, il Pd, sono tutti d’accordo. La maggioranza propone il ripristino del Mattarellum (un maggioritario, anche se temperato), la minoranza il proporzionale. Per il resto è una vera Babele: linguaggi diversi, per di più con molti che hanno lingue biforcute. Sono mille, infatti, le sfumature degli orientamenti in materia e altrettanti i retropensieri rigorosamente sottaciuti.

I Cinquestestelle non demordono dalla richiesta del voto subito, ma temono come il fuoco un proporzionale che li confinerebbe ad un’opposizione perpetua, a meno di rinunciare al loro mantra: mai con gli «impresentabili». Siamo poi sicuri che i grillini si sentano pronti ad affrontare l’azzardo delle urne in tempi ravvicinati, dopo la non brillantissima figura che stanno rimediando con la giunta romana e la capriola (con doppio salto mortale e rovinosa caduta finale) effettuata a Strasburgo?

Lo stesso Renzi, come può pensare di sfidare le urne quando non è ancora sicuro del leale sostegno del suo partito, peraltro in assenza di una legge elettorale certa? Che le elezioni si svolgano con il maggioritario o col proporzionale, non è affatto la stessa cosa. Nel primo caso il segretario «dem» può, pur ammaccato, continuare a coltivare il suo progetto originario di fare del Pd l’asse pigliatutto. Nel secondo si vedrebbe viceversa costretto a tessere una rete di alleanze, con inevitabile snaturamento della sua strategia politica complessiva e forse con l’affossamento della sua stessa (residua) credibilità di leader tutto d’un pezzo che non va a patti con nessuno.

A spingere verso la fine naturale della legislatura nel 2018, sarà un’insinuazione perfida ma fondata, è l’interesse dei parlamentari a maturare nel prossimo autunno il loro sacrosanto (?) vitalizio. Arrivati a novembre, visto che a Natale non si vota, tanto varrebbe convocare le urne al termine previsto. Da ultimo, a trattenere i partiti dall’affrontare subito il giudizio degli elettori, dovrebbe pesare (almeno si spera) una pur vaga consapevolezza del generale vuoto d’idee che regna nel mondo politico sulla vera questione nazionale: il disagio economico e sociale del Paese.

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