Laboratorio Italia,
guardando la Francia

La soddisfazione per la vittoria di Macron ha senso, in chiave italiana, se si traduce in un investimento europeista, nella consapevolezza che gli estremismi non pagano e in un pensiero che ricomponga il tessuto della società. Senza dimenticare che una nuova legittimazione della politica va ricostruita attorno al lavoro che non c’è. Fuori da questo schema, comunque già un buon punto di partenza, le analogie vanno misurate con prudenza sulle caratteristiche del laboratorio italiano, dove la competizione con i populisti sta per iniziare formalmente, mentre la Francia se la lascia alle spalle.

Fermare la deriva della società chiusa ora tocca a noi e saremo il prossimo Paese sotto esame. Alcuni esponenti Pd hanno spiegato che l’esperienza dei democratici ha anticipato il fenomeno Macron, ma è solo una parte di verità: il contrasto ai sovranisti è stato costruito all’esterno dei partiti storici, la soluzione è stata individuata non nella sinistra di governo, ma in un centrismo anomalo, un po’ tecnocratico e un po’ progressista. Attenzione, però: socialisti ed ex gollisti ci sono ancora e lo vedremo meglio alle legislative di giugno.

Italianizzare il neopresidente francese semplicemente come un Monti più un Renzi assomiglia ad un giochino di società. I grillini, neutralisti sul voto in Francia, non sono traducibili come una sintesi fra la Le Pen e Mélenchon. Quel che si muove nella sinistra-sinistra non ha una unità di base ideologica e ha consensi molto lontani dalla sinistra giacobina.

Macron è in luna di miele, Renzi ha subito un mini divorzio in casa, la pax renziana è un percorso a ostacoli e le risorse del leader dem andranno trovate non nella rottamazione bensì nella mediazione.

I due fronti antisistema o populisti sono simili come ordine di grandezza (oltre il 40 per cento), ma in Italia, dopo la grande scomposizione delle politiche del 2013 con l’eccezionale mobilità dei consensi che ha premiato i grillini, le divisioni sono ormai strutturate. Le oscillazioni fra i partiti sono minime.

L’aspetto più intrigante riguarda il centrodestra, dove la sconfitta è del tandem Salvini-Meloni, e in particolare del leader leghista che più si era omologato sulla formula lepenista. Pur unica nella sua singolarità, l’elezione presidenziale ha comunque smentito la prospettiva della Lega in mutazione genetica: l‘ultradestra che cavalca le paure spaventa l’elettorato moderato e conservatore e c’è un limite culturale oltre il quale il sovranismo non riesce a proporsi come forza di governo. Lo schema concettuale della Lega «nazionale» esce indebolito e sarà interessante vedere le eventuali ricadute nella pancia del partito: del resto il referendum sull’autonomia di Lombardia e Veneto, deciso da Maroni e Zaia, appare come un richiamo della foresta tutto lumbard, distinto dalla traiettoria salviniana. Berlusconi acquisisce un vantaggio teorico se intende ricostruire la coalizione su nuove basi.

Quel che si nota per ora è un ibrido, una via di mezzo tra europeismo e sovranismo. La proposta dell’ex Cavaliere di un’improbabile convivenza fra euro e moneta nazionale sembra confezionata per tenere insieme, borderline, un popolarismo incamminato vero la Merkel e un salvare la faccia a Salvini. I margini di manovra sono a favore di Berlusconi e i rapporti di forza sono stati chiariti dall’editoriale di ieri del «Giornale»: partiti come la Lega hanno la funzione di «pungolo», «completano un’offerta politica più ampia» (leggi Forza Italia), ma non possono «né loro né i loro leader» (leggi Salvini) «candidarsi ad esserne la guida». Molto dipenderà dalla legge elettorale, specie se sarà proporzionale, e i rischi indotti: la Francia è stata chiara nelle domande e nelle risposte, ma è realistico dubitare una replica italiana così esplicita.

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